domenica 19 aprile 2020

PERCHE' IL SOCIALISMO?
di Albert Einstein

Il 18 aprile scorso sono passati 65 anni dalla scomparsa di Albert Einstein. Il fisico tedesco e' a tutti noto per la sua geniale teoria della relativita'. E' meno noto invece, perche' volutamente occultato dal clero accademico, il suo credo politico che era dichiaratamente socialista e libertario. Io voglio ricordarlo con questo suo meraviglioso saggio del 1949, che sembra scritto da un Karl Marx del ventesimo secolo. In esso vibra la sua forte passione per la politica, il suo coraggioso interrogarsi sui destini dell'uomo, la sua appartenenza apertamente socialista, ma di un socialismo democratico e libertario che poco o nulla ha in comune con le esperienze coeve del Socialismo reale. Emerge una etica ed una consapevolezza profondi che fanno di Einstein non solo un grande scienziato ma anche un filosofo ed un politico di straordinaria fecondita'. Insomma un vero sapiente versatile, poliedrico  e persino temerario. Si capisce allora perche' fosse uomo indesiderato negli Stati Uniti e perche' l'FBI, in pieno maccartismo,  raccolse su di lui un fascicolo di 1427 pagine raccomandando che gli fosse impedito di emigrare negli Stati Uniti. In quel rapporto si sottolineava che " Einstein credeva, consigliava e insegnava una dottrina capace di permettere all'anarchia di progredire indisturbata e che portava ad un governo solo di nome". Inoltre aggiungeva  che il fisico tedesco "era stato membro e affiliato di 34 movimenti comunisti tra il 37 e il 54". La storia si inarichera' di dimostrare che erano accuse  esagerate e sostanzialmente false.



«L'anarchia economica della società capitalista così come oggi è, secondo la mia opinione, è la reale causa del male. [...] Sono convinto che esista solo una strada per eliminare questi gravi mali, vale a dire attraverso l'affermazione di una economia socialista, accompagnata da un sistema educativo orientato a fini sociali. In una siffatta economia, i mezzi di produzione sono posseduti dalla stessa società e utilizzati in modo pianificato»
Tratto da “Perché il Socialismo?” - Maggio 1949
Moriva 65 anni fa, tale Einstein
Fisico e Filosofo.

È OPPORTUNO che una persona non esperta in questioni economiche e sociali esprima opinioni in merito al socialismo? Credo di sì, per svariate ragioni. Consideriamo la questione dal punto di vista del sapere scientifico. Sembrerebbe non esserci fondamentali differenze di metodo tra l’astronomia e l’economia: in entrambe gli scienziati lavorano per scoprire leggi generalmente accettabili per un circoscritto insieme di fenomeni, allo scopo di mostrare l’interconnessione di questi fenomeni il più chiaramente che sia possibile. Ma in realtà le differenze metodologiche esistono. Nel campo economico la scoperta di leggi generali è resa difficile dal fatto che spesso i fenomeni economici osservati sono interessati da numerosi fattori che sono difficili da valutare separatamente. Inoltre, l’esperienza che si è accumulata dall’inizio del cosiddetto periodo civilizzato della storia dell’umanità è stata, come è ben noto, ampiamente influenzata e limitata da fattori che in natura sono molto lontani dall’essere esclusivamente economici.

Per portare un esempio, la gran parte dei maggiori stati della storia devono la loro esistenza a politiche di conquista. Il popolo conquistatore si impose, legalmente ed economicamente, come classe privilegiata del paese conquistato. Avocò a sé il monopolio della proprietà terriera e nominò il clero all’interno dei suoi ranghi. I preti, tramite il monopolio dell’educazione, trasformarono la divisione in classi della società in un istituzione permanente creando un sistema di valori dal quale il popolo, in larga misura inconsciamente, venne manovrato nel suo comportamento sociale. La tradizione storica, però, appartiene per così dire al passato. Da nessuna parte siamo stati completamente soggiogati ideologicamente da ciò che Thorstein Veblen definì la “fase predatoria” dello sviluppo dell’umanità. I fatti economici oggi osservabili fanno parte di quella fase e, di conseguenza, le leggi che possiamo derivare da essi non sono applicabili ad altre fasi.

Ora, poiché lo scopo reale del socialismo è proprio quello di superare ed andare oltre la fase predatoria dello sviluppo dell’umanità, la scienza economica nel suo stato attuale può fare solo un po’ di luce sulla futura società socialista. In secondo luogo, il socialismo si indirizza ad un fine etico-sociale. La scienza, però, non può creare fini ed ancor meno inculcarli negli uomini; al massimo, può informare circa i mezzi più adatti ad ottenere certi fini. Questi stessi fini, però, sono stati concepiti da personalità con vigorosi ideali morali e, se questi non sono scomparsi ma ancora forti e vitali, sono fatti propri e perseguiti da quei numerosi esseri umani che, con consapevolezza più o meno estesa, determinano la lenta evoluzione della società.

Dovremmo perciò fare attenzione a non sopravvalutare la scienza ed il metodo scientifico quando trattiamo di questioni legate alle relazioni umane; non dobbiamo nemmeno presupporre che solo alcuni siano esperti in merito ed abbiano diritto a far sentire la loro voce sulle questioni dell’organizzazione sociale. È già da un po’ che tantissime voci hanno affermato che oggi la società umana attraversa una crisi e che la sua stabilità è seriamente compromessa. Tipico di una simile situazione è che gli individui si mostrino indifferenti o persino ostili verso il piccolo o grande gruppo cui fanno parte.

Per illustrare il mio pensiero, permettetemi di riportare qui un’esperienza personale. Di recente discutevo con un uomo intelligente e gentile sulla minaccia di un’altra guerra che, come penso, avrebbe seriamente minacciato l’esistenza del genere umano e facevo notare come soltanto un miracolo avrebbe potuto preservarlo da quel pericolo. Di fronte a ciò il mio ospite, con estrema tranquillità e disinvoltura, mi disse: “Perché siete così decisamente contrario alla scomparsa della specie umana?”   Sono certo che meno d’un secolo fa nessuno avrebbe fatto, con tale facilità, una tale affermazione. Si tratta dell’affermazione di un uomo che s’è sforzato inutilmente di raggiungere un equilibrio interno ed ha pressoché perso la speranza di riuscirvi. Si tratta dell’espressione di una solitudine dolorosa e di un isolamento cui numerose persone ricavano sofferenza. Quale ne è la causa? Esiste una via d’uscita? Facile è sollevare tali questioni, meno facile rispondervi con un certo grado di sicurezza. Ciononostante, devo provarci al meglio delle mie forze, benché sia cosciente del fatto che i nostri sentimenti ed i nostri sforzi sono spesso contraddittori ed oscuri, che non possono essere espressi in facili e semplici formule.

L’uomo è contemporaneamente un essere solitario ed un essere sociale. Come essere solitario, cerca di garantirsi la propria sicurezza e quella di coloro a lui più vicini, di soddisfare i suoi desideri individuali e sviluppare lue capacità innate. Come essere sociale, cerca d’ottenere il riconoscimento e l’affetto dei suoi simili, di condividerne i desideri, di confortarli nei loro dolori e di migliorarne le condizioni di vita. Solo la coesistenza di questi diversi sentimenti, spesso in conflitto, forma lo specifico carattere di un individuo e la loro specifica combinazione determina il punto in cui un individuo può cogliere un equilibrio interiore e contribuire al benessere generale. Certo è possibile che la forza relativa di queste due spinte sia principalmente stabilità dall’eredità; ma la personalità che alla fine emerge è ampiamente determinata dall’ambiente in cui un individuo ha avuto la sorte di trovarsi durante il suo sviluppo, dalla struttura sociale in cui cresce, dalla tradizione di quella società e dalla valutazione che essa da a particolari tipi di comportamento.

L’astratto concetto di “società” significa concretamente per il singolo essere umano l’insieme delle sue relazioni dirette ed indirette con i suoi coetanei e con tutte le persone delle varie generazioni. L’individuo può pensare, sentire, lottare e lavorare da solo, ma egli dipende dalla società cosi tanto – nella sua esistenza fisica, intellettuale ed emotiva – da essere impossibile raffigurarlo o comprenderlo fuori da una determinata struttura sociale. È la “società” che gli fornisce il cibo, il vestiario, una casa, gli strumenti di lavoro, il linguaggio, le strutture mentali e la maggior parte delle sue conoscenze; la sua vita è resa possibile tramite il lavoro e le realizzazioni di milioni e milioni di uomini, passati e presenti, nascosti all’interno della piccola parola “società”. È perciò evidente come la dipendenza dell’individuo dalla società sia un fatto naturale che non può essere abolito, né più né meno che nel caso delle formiche e delle api.

Va detto, però, che, mentre l’intero ciclo vitale di api e formiche è completamente determinato da ferrei istinti ereditari, i modelli sociali e le forme di reciproca dipendenza degli esseri umani sono estremamente variabili e possono essere cambiati. La memoria, la capacità di formare nuove combinazioni, la capacità naturale del linguaggio verbale hanno permesso tra gli esseri umani degli sviluppi che non sono dettati direttamente da necessità biologiche. Questi sviluppi si evidenziano nelle tradizioni, nelle istituzioni, nelle forme organizzative, nella letteratura, nelle scoperte scientifiche, nelle realizzazioni ingegneristiche e nelle opere d’arte. Questa cosa spiega come accade che, da un certo punto di vista, l’uomo può influenzare la sua vita attraverso il proprio comportamento e che, in questo processo, la riflessione e la ricerca consapevoli possono svolgere un ruolo.

L’uomo acquisisce alla nascita, per eredità genetica, una costituzione fenotipica che occorre ritenere fissa ed inalterabile, che comprende i bisogni naturali caratteristici del genere umano. Inoltre, durante l’arco della sua esistenza, acquisisce una struttura culturale traendola dalla società tramite la comunicazione e molti altri tipi d’influenze. È questa struttura culturale che, col tempo, è soggetta a cambiamento e determina in larghissima misura le relazioni tra l’individuo e la società.
L’antropologia moderna ci ha insegnato, tramite lo studio comparato delle cosiddette civiltà primitive, come il comportamento sociale degli esseri umani può essere molto differente, dipendendo dai modelli culturali maggioritari e dal tipo di organizzazione prevalente nella società. È su ciò che coloro i quali lottano per migliorare il destino dell’uomo possono fondare le loro speranze: gli esseri umani non sono condannati dalla loro costituzione biologica a distruggersi reciprocamente o restare in preda all’arbitrio di un destino malvagio, da loro stessi causato.

Se ci domandassimo come occorrerebbe mutare la struttura sociale e la predisposizione culturale umana allo scopo di rendere la vita degli esseri umani il più soddisfacente possibile, dovremmo essere sempre consapevoli del fatto che ci sono determinate condizioni che ci è impossibile modificare. Come detto precedentemente, la natura biologica umana non è, per motivi materiali, soggetta a cambiamento. Inoltre, gli sviluppi tecnologici e demografici degli ultimi secoli hanno creato vincoli permanenti. All’interno di popolazioni selezionate in modo relativamente numeroso insieme ai beni indispensabili alla loro sopravvivenza, sono assolutamente necessari un’avanzata divisione del lavoro ed un sistema produttivo fortemente centralizzato. È finita del tutto l’epoca (che, guardando indietro nel passato, può sembrarci idilliaca) in cui individui o gruppi relativamente piccoli potevano essere del tutto autosufficienti. Non è un’esagerazione approssimativa dire che il genere umano costituisce, oggi come ieri, una comunità planetaria di produzione e consumo.

Sono adesso giunto al punto in cui posso mostrare in breve cos’è per me l’essenza della crisi della nostra epoca. Questa crisi riguarda le relazioni dell’individuo con la società. L’individuo è divenuto più che in qualunque altro tempo consapevole della sua dipendenza dal resto della società. Egli, però, non avverte questa dipendenza come una risorsa positiva, come un legame intrinseco, come una forza protettiva, ma al contrario come una minaccia ai suoi diritti naturali o alla sua esistenza materiale. Inoltre, la sua posizione sociale è tale che le spinte egoistiche del suo comportamento vengono sempre più accentuate mentre le sue spinte sociali, che sono di natura più deboli, si deteriorano progressivamente.

Tutti gli esseri umani, quale che sia la loro posizione sociale, soffrono a causa di questo processo di deterioramento. Inconsciamente prigionieri del proprio egotismo, si avvertono insicuri, isolati, privati dell’ingenua, semplice e non sofisticata gioia di vivere. L’uomo può trovare un significato nella vita, per quanto breve e pericolosa, solo all’interno dei rapporti sociali.

Il caos economico della società capitalistica nella sua forma attuale è, secondo la mia opinione, la vera causa del male. Ci avvertiamo innanzitutto come un’enorme comunità di produttori i cui membri cercano incessantemente di defraudarsi reciprocamente dei frutti del lavoro comune – non necessariamente tramite la forza, ma alla fin fine tramite la complicità delle leggi.

Da questo punto di vista, è fondamentale comprendere che i mezzi di produzione – in altri termini l’intera capacità produttiva necessaria sia alla produzione dei beni di consumo sia alla produzione di tutto il resto – possono in virtù della legge essere, e solitamente lo sono, proprietà privata di determinati individui. Per semplicità, nella discussione seguente chiamerò “lavoratori” tutti coloro che sono esclusi dalla proprietà dei mezzi di produzione – anche se ciò non è affatto l’uso comune di tale termine. Il proprietario dei mezzi di produzione è nella posizione di comprare la forza lavoro del lavoratore. Utilizzando i mezzi di produzione, il lavoratore produce nuovi beni che passano nella proprietà del capitalista. Il punto essenziale di questo processo è la relazione tra ciò che il lavoratore produce e ciò che gli viene pagato – sia l’uno sia l’altro misurati in termini di valore reale. Per quanto il contratto di lavoro possa essere “libero”, cio' che il lavoratore riceve è determinato non dal valore reale dei beni che ha prodotto, ma, da un lato, dai propri bisogni minimali, dall’altro, dalla richiesta di forza lavoro da parte dei capitalisti in relazione al numero di lavoratori in concorrenza per l’impiego. È fondamentale comprendere che, anche in teoria, la paga del lavoratore non è determinato dal valore del suo lavoro. Il capitale privato tende ad essere concentrato in poche mani, in parte a causa della competizione tra i capitalisti, in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente divisione del lavoro spingono alla formazione di più grandi unità produttive a spese di quelle più piccole. Il risultato di tali dinamiche consiste in un’oligarchia del capitale privato, il cui enorme potere non può ragionevolmente essere controllato nemmeno da una società organizzata politicamente in forma democratica.

Questo è  vero finché i membri del potere legislativo sono selezionati da partiti politici in larga misura finanziati, o comunque influenzati, dai capitalisti privati che, per motivi di praticità, separano l’elettorato dalla legislatura. Di conseguenza, i rappresentanti del popolo, di fatto, non proteggono sufficientemente gli interessi dei settori popolari soggiogati dai privilegi dei pochi. Inoltre, nelle attuali condizioni,  e' inevitabile che i capitalisti privati controllino, direttamente o indirettamente, le principali forme della comunicazione (stampa, radio, educazione…). Davvero, è estremamente difficile, anzi nella maggior parte dei casi del tutto impossibile, per il singolo cittadino raggiungere conclusioni valide e far uso con intelligenza dei suoi diritti politici.

La situazione in un’economia fondata sulla proprietà privata del capitale e così normalmente caratterizzata da due fattori basilari: a) i mezzi di produzione (capitale) sono posseduti in forma privata ed i detentori ne dispongono a loro arbitrio; b) il contratto di lavoro è libero. Ovviamente non esiste una società capitalistica pura. In particolare, va osservato che i lavoratori, tramite lunghe e dolorose lotte, sono giunti a conquistare per certe categorie di lavoratori una forma in qualche modo migliorata del “libero contratto di lavoro”. Nel complesso, però, l’economia odierna non differisce molto dal capitalismo “puro”. La produzione viene diretta in base al profitto, non in base alla sua utilità. Non c’è alcuna garanzia che tutti quelli abili e disponibili a lavorare saranno sempre in grado di trovare un impiego – la norma è anzi quella che vede un numeroso esercito di disoccupati. Il lavoratore vive costantemente con addosso la paura di perdere il lavoro. Quando lavoratori disoccupati e malpagati non riescono più a garantire un mercato in grado di dare profitti, la produzione dei beni di consumo diminuisce con la conseguenza di un’enorme miseria generale. Il progresso tecnologico pressoché sempre sfocia in un aumento della disoccupazione, invece che in un alleggerimento del carico di lavoro per tutti. L’obiettivo del profitto, insieme con la competizione tra i capitalisti, è la responsabile dell’instabilità nell’accumulazione e nell’utilizzazione del capitale la quale conduce ad una dura e crescente depressione. La sfrenata competizione comporta un enorme spreco di forze produttive ed a quel deperimento della coscienza sociale che ho menzionato in precedenza.

Considero questo mancato sviluppo degli individui il male peggiore del capitalismo. Il nostro intero sistema educativo soffre di questo male. Viene inculcata nello studente un’esagerata predisposizione alla competizione, che è addestrato nel culto del successo economico come preparazione per la sua vita futura.

Sono convinto che esista una sola strada per eliminare questi gravi mali, vale a dire l’affermazione di un’economia socialista accompagnato da un sistema educativo orientato a fini sociali. In una tale economia i mezzi di produzione sono posseduti dalla collettività e da essa utilizzati in modo pianificato. Un’economia pianificata che regoli la produzione in base ai bisogni della comunità distribuirebbe il lavoro necessario tra tutti quelli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza ad ogni uomo, donna e bambino. L’educazione dell’individuo, oltre a favorire lo sviluppo del sue innate capacità, tenderebbe a sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i propri simili al posto della esaltazione del potere politico ed economico presente nella nostra attuale società.

Va tutta via ricordato che un’economia pianificata non è ancora il socialismo. Un’economia pianificata in quanto tale può essere congiunta al completo asservimento dell’individuo. Il raggiungimento del socialismo comporta la soluzione di alcuni problemi sociali e politici molto difficili: come impedire, data la necessità della centralizzazione, alla burocrazia di divenire onnipotente e prepotente? Come proteggere i diritti dell’individuo ed in più assicurare un contrappeso democratico al potere della burocrazia?  Chiarire questi problemi del socialismo è di fondamentale importanza nella nostra epoca di transizione. Dal momento che, nelle attuali circostanze, una discussione libera e senza intralci è soggetta ad un possente tabù, ritengo la fondazione di questa rivista un importante servizio pubblico.












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