lunedì 6 aprile 2020


PER UNA CRITICA DEL POPULISMO

di Mauro Pasquinelli



martedì 16 luglio 2019


   I socialisti rivoluzionari, dalla Prima alla Quarta Internazionale, da Rosa Luxemburg a Guevara, da Mao a Castro, pur nelle differenti sfumature e sintesi progettuali, hanno sempre tenuto a distinguersi in un oltre confine, in un terzo campo, oltre il finto dualismo novecentesco destra – sinistra.
Ai tempi di Marx l’opposizione destra-sinistra non esisteva ma si presentava nelle vesti di alternativa tra Monarchia o Repubblica democratico-borghese. Non diverso era ai tempi di Lenin, dove destra significava fascismo, bonapartismo, reazione, militarismo e sinistra socialdemocrazia, democrazia, riformismo, pacifismo. Mai, tuttavia, abbiamo visto dirigenti o teorici del socialismo, tranne quelli di matrice riformista, posizionarsi nel secondo campo delle opzioni della classe dominante. Dal terzo campo rivoluzionario, si poteva al massimo fornire un appoggio tattico al secondo campo per porre un argine o battere l’ipotesi del primo, quella più autoritaria.

   Al dualismo storico destra sinistra nel campo delle opzioni borghesi, che data dall’affare Dreyfus (1894) oggi si aggiunge, o forse si sostituisce, quello tra popolo ed élite, per la precisione tra populismo e globalismo, sovranismo e cosmopolitismo.
Cercherò di dimostrare perché il populismo non è un alternativa vera al cosmopolitismo, come la sinistra non lo è mai stata alla destra.

   Queste riflessioni vogliono essere un invito alla discussione sul tema del populismo all’interno della sinistra patriottica, per una ridefinizione del suo posizionamento tattico e strategico, che tutt’ora, ahimè, staziona all’interno del secondo campo populista, presidiato in Occidente da forze politiche per lo più xenofobe e rozzo-brune.

   Lancio subito una provocazione concettuale che sarà più chiara dopo aver letto questo breve saggio, e che a me serve per renderlo più appetitoso: il populismo agisce in nome del popolo. Il socialista agisce per il popolo e con il popolo. Questione di preposizioni? No questioni di sostanza e lo vedremo alla fine.
   “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi” scriveva Marx in esergo al proclama di fondazione della Prima internazionale. Ed aveva ragione: il socialismo è la prima forma sociale, nella storia dell’umanità che per essere realizzata richiede il protagonismo e la partecipazione attiva e permanente della comunità degli uomini. Altrimenti non sarà mai. Non l’autonomia del politico di un nuovo principe machiavellico populista con scienza incarnata e gregari a suo seguito, che agisce in nome delle masse e ad esse porta la coscienza dall’esterno, ma il movimento reale degli oppressi che si eleva al livello del sublime e dei suoi compiti storici, e che abolisce lo stato di cose esistenti. Questa è l’unica strada che potrà condurci fuori dal capitalismo. Questo il pertugio strettissimo da attraversare per uscire dalla caverna degli spettri di platoniana memoria. L’alternativa è il giro infinito del criceto, è la fatica di Sisifo condannato dagli Dei per tutta la vita a percorrere gli stessi tragitti, gli stessi tragici errori, con il gran peso della roccia sulle spalle.
E quindi:

“Se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società — così com’è — le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco” (Karl Marx, Grundrisse).


Destra-sinistra, morte del sociale e del politico


   Ha ragioni da vendere Jean Claude Michea: la sinistra ha perso ed è stata definitivamente ripudiata dal popolo perché nel Novecento ha aderito al mito ideologico del “progresso”, in nuce nella filosofia dei lumi, sbocciato in modo compiuto nel pensiero liberale e penetrato, come un bacillo, nello stesso pensiero marxista. Ma attenzione: sappiamo che Marx fu il primo a non dichiararsi marxista! Marxismo è il Marx edulcorato dagli epigoni!
   Dalla primigenia condanna del luddismo fino all’odierna esaltazione del cosmopolitismo, il mito del progresso, si impone come vera furia storica del dileguare, come rullo compressore di impareggiabile potenza. Esso implica il rifiuto di ogni passatismo, di ogni identitarismo basato sulle tradizioni, di ogni nostalgia di confini nazionali e di limiti dello sviluppo. Tutto può essere messo in discussione, persino Dio, ma non le libere forze del mercato che irrompono nella storia e spianano la strada al futuro, lasciando sulla strada il vecchio, visto sempre come rifiuto della storia come detrito del passato!
   La sinistra, ancor più della destra, ha aderito a questo mito, a questa metafisica dell’illimitato. Così oggi ci ritroviamo in quasi tutto l’occidente con una sinistra che è passata quasi interamente nella destra ed una destra stravincente che può pure permettersi di inalberare valori della sinistra, in un vorticoso scambio dei ruoli.

   Non deve depistare il fatto che la “sinistra” abbia issato il migrante al posto del proletario o del contadino, sulla propria bandiera. Per colmo dell’ironia il migrante da loro glorificato non è la figura dell’ultimo che si riscatta, ma l’archetipo del mendicante pronto a morire per inseguire la false promesse del nostro “progresso”, per accaparrarsi le briciole che cadono a terra dalla opulenta tavola del consumismo occidentale. Nel migrante loro ravvisano il servo senza vincoli, sans phrase, disposto, ancor più del proletario, a farsi sfruttare e sottomettere. Vedono in lui la forza muscolare, la vitalità, la potenza fisica che l’annichilito operaio occidentale, bianco e pigro, cresciuto a brioche e digitale, sta inesorabilmente smarrendo.

   Nel migrante destra e sinistra scorgono oramai la plebe che rischia tutto per trasfigurarsi nell’altra figura simbolica del “progresso” occidentale, la figura del consumatore totale, il nulla cosmico umanoide elevato a metafora del vivere neoliberale. Migrante totale-consumatore totale ecco il binomio della morte del sociale, della barbarie e dello sradicamento in cui la civiltà occidentale sta collassando.

   In un lungo secolare percorso, partendo da posizioni che all’inizio sembravano antitetiche, destra e sinistra si sono incontrate al centro e questo centro geometrico si chiama liberalismo politico ed economico. La sinistra che si era affermata nella difesa dei diritti dei lavoratori e nel superamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo ha completamente reciso le proprie radici, ha obliato i diritti sociali per abbracciare il liberalismo dei diritti civili individuali e di minoranza. La destra che era storicamente ancorata alle tradizioni, ai valori di identità nazionale, di patria, ordine e famiglia, abbracciando il liberalismo economico che annienta quei valori, non poteva che snaturarsi e rendersi indistinguibile dalla sinistra.

   L’epilogo di questo processo storico che fa del liberalismo l’anima, il primum movens dell’economico e del politico, è la morte del sociale. E’ una società polverizzata, liquida, in cui gli individui non hanno più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati, strategie di potere, tecniche di arrangiamento e sopravvivenza. Con il trionfo del liberalismo muore la comunità. In epigrafe a questo approdo possiamo porre le parole della Thatcher: “la società non esiste più esistono solo gli individui”.

   Ma non muore solo il sociale, muore anche il politico! L’anti-politica non è nel populismo, che invece tenta in extremis di riesumarla e riattivarla, ma nell’approdo finale di destra e sinistra che lascia alla mano invisibile del mercato, agli incappucciati dello spread, il potere effettivo di decisione sulla vita e il futuro dei popoli.

   La forma capitale liquida e cosmopolita aborre i politici, rifugge la politica alla vecchia maniera come scelta tra alternative di civiltà, tra ipotesi di senso. Essa richiede solo esperti di gestione dei flussi globali delle merci, tecnici del calcolo e dell’efficienza del dominio. Si realizza il sogno di Saint Simon e di Marx, ma nella forma di un incubo tecnocratico: la fine della politica trasformata in amministrazione delle cose, non in seguito all’abolizione delle classi, al passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, ma nella forma di una gestione tecnocratica, di una sussunzione reale della sociale al capitale scientificamente e razionalmente pianificata.

   Benvenuti nel regno della post-politica, della post-democrazia dove il ruolo affidato agli elettori è solo quello di approvare politiche “razionali” elaborate da tecnocrazie, per meglio assoggettarli alle catene dello sfruttamento e dell’estorsione di valore.

   Fortunatamente però l’istinto sociale dell’homo sapiens è stato compresso ma non sradicato! La lotta di classe è stata vinta dai dominanti ma non abolita. E le classi povere e pericolose cercano altri canali su cui esprimere e riversare la propria rabbia, il proprio dissenso. Il populismo è la prima zattera scalcagnata che i popoli hanno trovato dopo il naufragio di destra e sinistra, dopo la morte del sociale. Zattera concessa loro dalle stesse classi dominanti in crisi storica di egemonia!

   Sarà essa sufficiente a portare i popoli ad un approdo comunitario di giustizia, uguaglianza e di libertà Penso di no! Ma lo vedremo meglio alla prossima puntata.



Crisi della forma-capitale e populismo


   La globalizzazione iper-capitalista neoliberale, rafforzando i poteri delle grandi corporazioni economiche, centralizzando le decisioni di politica economica internazionale in mano a pochi grandi potentati oligopolistici, ha finito per sequestrare sovranità ai singoli stati nazionali, relegando la democrazia rappresentativa a una truffa elettorale per decidere quale tecnico migliore possa assoggettare il popolo ai dictat delle oligarchie!

   In questo nuovo scenario storico, dove sinistre e destre storiche sono trasmutate in tecniche della forma cosmopolita del capitale, la rabbia dei popoli ha trovato sfogo in formazioni politiche populiste che hanno avuto gioco facile a rivendicare ciò che è stato svuotato di senso e di valore dai mercati finanziari: sovranità popolare, stato sociale, difesa di confini, delle culture e delle tradizioni nazionali.

   Sovranità non è un concetto fascista, come pensa la “sinistra liberal”, ma un principio basilare di tutte le costituzioni democratiche, diventate oggi il principale ostacolo da abbattere per completare la realizzazione del capitalismo assoluto.

   Il capitalismo sta attraversando una crisi epocale che si manifesta nella riduzione del saggio medio di profitto mondiale, determinata sia dall’introduzione di nuove tecnologie digitali, che eliminando lavoro vivo sopprimono la fonte primaria del plusvalore (legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto) sia dall’emergere di nuove potenze mondiali del sud del mondo, che fanno del basso costo del lavoro la loro arma vincente per la conquista dei mercati mondiali. Il capitalismo occidentale langue schiacciato in questa micidiale tenaglia.

   Per ironia della storia esso viene sopraffatto dalle stesse potenze ex coloniali e dalla vorticosa crescita della produttività che, come un apprendista stregone, ha evocato e non riesce più a controllare.

   La Cina e l’Asia ex-coloniale rappresentano la sua nemesi storica. Il lavoro morto dell’intelligenza artificiale che sostituisce il lavoro vivente dell’uomo è l’acceleratore della crisi!

   La bomba demografica e il lento esaurimento delle risorse naturali saccheggiate a ritmo crescente negli ultimi due secoli, chiudono il cerchio.

   Risorse che calano e degradano, bocche fameliche dei nuovi “barbari” che crescono e bussano alle porte dell’occidente, segnano l’inizio della fine della “civiltà” occidentale, come segnarono la fine dei vecchi imperi! Natura, ex colonie e lavoro vivo presentano il conto storico che il capitale imperialista non potrà pagare!

   La finanziarizzazione, la distruzione dello stato sociale e delle costituzioni nazionali è la risposta a questa crisi di valorizzazione.

   Se fosse sufficiente stampare moneta e rilanciare i consumi interni secondo la ricetta neokeynesiana, vagheggiata dalla MMT di Mosler, l’élite globalista lo avrebbe già fatto, perché è nel suo interesse razionale non suicidarsi, incrementare i profitti e non perdere consenso sociale. Ma Marx ci aveva avvisato: la crisi non è da sottoconsumo! E’ crisi di sovrapproduzione e sotto-valorizzazione del capitale. Il turbocapitalismo impone l’austerity, delocalizza le produzioni nel sud del mondo e lascia le popolazioni occidentali impoverire perché è stretto nella morsa delle sue contraddizioni e non ha altra scelta per riprodursi come potenza famelica a caccia di denaro.

   La forma capitale è entrata in un conflitto storico insanabile con i bisogni delle popolazioni. Da ciò deriva la colossale crisi di legittimazione delle élite europee ed occidentali che hanno governato la globalizzazione negli ultimi decenni.

   I populisti tentano di porre un argine alla crisi innalzando il vessillo di vecchie ricette keynesiane, del protezionismo, del ritorno alla sovranità nazionale, dell’interclassismo, etc. Ritengo sia un passaggio obbligato per mantenere il consenso delle popolazioni al sistema dominante, un tentativo disperato per allungare la vita del malato sistemico terminale.

   Spostare la crisi da un paese all’altro, coprire la falla con delle toppe, è un palliativo, non è la soluzione alla crisi sistemica del capitale, che, forse per la prima volta nella storia, è crisi universale, crisi di egemonia, crisi produttiva, crisi ecologica, crisi culturale, crisi di valori, crisi di civiltà e di senso!

   Per questo ritengo che la zattera del populismo, su cui molti della vecchia sinistra sono saliti non ci porterà a nessuna soluzione vera delle contraddizioni ma solo a ritardare la resa dei conti finale, che storicamente si è sempre sostanziata in guerre imperialiste e guerre civili. Quando la torta si restringe e gli agenti che se la disputano aumentano, i conflitti si acuiscono e inevitabilmente tendono a conflagrare in conflitti armati.

   Occorre passare velocemente ad una nuova zattera, ricostituire un terzo campo, come è nel DNA della sinistra anti-sistemica. Il cancro del capitalismo non può essere curato con lassativi populisti, che come nel caso di Trump, negazionista del Global Worming, paladino del ritorno al carbone, all’amianto e al nucleare, rischiano di essere una toppa peggiore del buco. Il cancro va sradicato alla radice. Saremo per lungo tempo in minoranza? Non ha importanza! In minoranza ci sono stato Cristo, Marx, Engels. Ci possiamo stare anche noi! Ma è importante dire la verità senza edulcorarla perché la verità è sempre rivoluzionaria, mentre le fanfaluche possono solo servire a lenire le sofferenze o ad alimentare false credenze ed illusioni. Riseminare una teoria e di una prassi che potrà essere raccolta dalle generazioni future…Questo è il nostro compito. Ma se nessuno le raccoglierà, pazienza!          Lanceremo i nostri file nell’oscurità dell’universo. Forse qualche vita extraterrestre li raccoglierà dopo l’estinzione del genere umano, che è l’unico dato certo!

POPULISMI SENZA POPOLO 
per una critica marxista del populismo

   Crisi colossale di legittimazione delle classi dirigenti mondialiste, sfaldamento del blocco storico che le univa alle borghesie nazionali (uscite perdenti dal confronto mondiale) e ai ceti medi abbandonati ed in via di pauperizzazione. Ecco il quadro socio-politico, la miscela che ha dato vita alla ribellione populista in occidente e che ha trovato espressione in Trump, Le Pen, Salvini, Movimento 5s, Iglesias in Spagna, Tsipras in Grecia, Farage in Inghilterra etc.

   Se all’inizio la rabbia popolare aveva trovato una sponda in formazioni populiste di sinistra (Tsipras in Grecia, Iglesias in Spagna, 5s in Italia, Melenchon in Francia, Corbyn in Inghilterra), nel giro di poco tempo si è riversata in formazioni populiste di destra. Oggi il populismo occidentale è quasi completamente egemonizzato dalla sua variante destra.

   Il caso italiano rappresenta una vera anomalia nel panorama mondiale perché è l’unico laboratorio in cui populismo di destra e di sinistra si sono incontrati stringendo una alleanza di governo. Nella formula però di un contratto sempre più fragile e favorevole alla Lega, che in un anno ha calamitato ben 4 milioni di voti dal suo diretto alleato.

   Cerchiamo di capire la natura di questo populismo, i suoi punti di forza e di debolezza, i suoi cavalli di battaglia. Al di là di un anti-europeismo di facciata e di uno spirito anti-establishment solo urlato e battipugnista, la proposta politica si sostanzia in una formula di compromesso sempre instabile e mai raggiunto con l’élite, di stop and go delle accuse, di negoziazioni estenuanti e differite sullo zero virgola del deficit, di trattative al ribasso sulle massime cariche della governance europea. L’unico terreno su cui il populismo europeo e italiota sembra mantenere fermezza e rigidità è quello della lotta all’immigrazione, scenograficamente combattuta a suon di porti chiusi e fili spinati alzati.

   La variante destra del populismo, di cui il salvinismo è massima esemplificazione, si sostanzia in neoliberalismo in economia (flat tax) , stato debole nei confronti del mercato e stato forte nei confronti della società civile (decreto sicurezza) e degli immigrati. In politica estera totale soggezione all’imperialismo americano, condanna dei populismi bolivariani, difesa del bolsonarismo e del sionismo etc.

   Se prescindiamo dal movimento 5s stelle, la cui natura risulta sempre più qualunquista e gate-keeper del consenso, per evitare rivolte alla francese (stesso dicasi per Tsipras in Grecia), e proviamo a sollevare lo sguardo sul lungo periodo dei processi storici mondiali, la variante di destra del populismo si distingue da quella di sinistra, peronista e bolivariana, per alcuni tratti essenziali. Innanzitutto per la forma di attuazione: la prima fondata solo sulla cattura mediatica del consenso di una opinione pubblica polverizzata e priva di forti legami comunitari, la seconda radicata su movimenti di lotta antimperialisti e su vigorose reti di solidarietà popolare. In Venezuela, per quanto gli Usa abbiano provato con tre colpi di stato a spazzare via lo chavismo, esso ancora resiste. E’ vivo e vegeto perché congiunto ad un blocco sociale nazionalpopolare di grande forze e vigore, al cui confronto quello dei 5s in Italia è polvere di umanità, fluttuante negli eterei spazi.

   Sicché mettere nello stesso sacco il populismo occidentale e quello di latino americano è una operazione scorretta sia sul piano formale che sostanziale.

   La linea di faglia tra i due tipi di populismo, al di là della retorica anti élitaria e anti establishment, passa nell’essere i primi espressione di nazioni colonialiste o sub-colonialiste e i secondi di nazioni colonizzate. Nel poliverso mondiale dei populismi sarebbe più giusto posizionare quello grillino tra i populismi di centro, quello leghista tra i populismi di destra e quelli latino americano tra i populismi di sinistra.

   Il populismo di sinistra è aperto alla solidarietà con i popoli, ha un carattere formalmente antimperialista, ricerca alleanze con gli stati oppressi dall’occidente. Si radica su sollevazioni vere, su strutture di contropotere popolare che forgiano identità sociali e comunità di appartenenza. Il caso boliviano da questo punto di vista è paradigmatico: Il populismo di Morales si è affermato su una grande battaglia in difesa dell’acqua pubblica e dei beni comuni, in opposizione alle multinazionali e alle privatizzazioni imposte dal FMI.

   Il populismo di centro-destra occidentale cresce invece nel silenzio delle urne, ha come platea di riferimento più una opinione pubblica incazzata che un popolo in lotta, è il frutto della rabbia di folle solitarie che hanno perso privilegi durante la crisi e sono disposte a pensare che questa perdita è dovuta a chi sta peggio di loro. La condizione diffusa di sradicamento sociale, di disorientamento e di risentimento verso tutto e tutti è uno dei fattori chiave del populismo nostrano, difficilmente riconducibile ad una sola logica ideologica, e fortemente instabile sotto il profilo dell’appartenenza identitaria, con flussi di consenso che si muovono dall’una all’altra delle formazioni populiste in base agli umori del momento e alle capacità attrattive del capo-salvatore di turno.

   Dobbiamo chiederci: se così profonde sono le differenze tra populismi di destra e di sinistra perché allora insistiamo a unificarli sotto lo stesso nome? Perché hanno in comune dei limiti di fondo che ora proverò ad elencare:

1) La forma politica della rappresentanza costruita sul binomio massa – leader, senza salde intermediazioni e corpi intermedi (questi ultimi presenti invece nei tradizionali partiti di massa, PCI in primis, di epoca fordista, con solidi ancoraggi nei sindacati, nelle cooperative etc). L’autorappresentazione collettiva in un leader popolare, amato e visto dal popolo come il vero salvatore, il grande risolutore di tutti i problemi. Attenzione però, come spiega Marco Tarchi

“Il leader populista non va assimilato al capo carismatico (come nel fascismo dove il leader si libra in una eterea distanza dalle masse ndr). Deve si presentare qualità non comuni, ma non deve mai incorrere nell’errore di mostrarsi fatto di un’altra pasta rispetto all’uomo comune al quale si rivolge. La prima delle sue abilità consiste proprio nel non cancellare mai quei tratti, come il linguaggio o la gestualità che ne connotano la somiglianza con il pubblico dei suoi seguaci”

2) La tendenza a vedere la causa di tutti i problemi non nel sistema in se’ ma in un intruso che viene dall’esterno, che può essere l’incappucciato della finanza, l’euro, il politico corrotto, l’immigrato, l’ebreo, il terrorista, la multinazionale, da cui il leader ci deve difendere etc. Ma da marxisti sappiamo che l’usura, l’immigrazione, la finanziarizzazione, la corruzione, non appartengono alla sfera delle patologie ma a quella della fisiologia del sistema capitalistico. Non si può estirpare il frutto lasciando in vita la malapianta.
3) Altro tratto distintivo che accomuna tutti i populismi è l’illusione, tanto più evidente in periodo di crisi, di mettere d’accordo e accontentare tutte le classi senza intaccare le basi strutturali dei rapporti di produzione.

4) Il plebiscitarismo, il giustizialismo parolaio e l’appello diretto al popolo da parte del leader “carismatico” che si sostanzia in un rafforzamento del potere esecutivo a spese di quello legislativo, nella predilezione di forme presidenzialiste e golliste di governo. Tutto ciò nel solco di una generale tendenza della forma capitale post-moderna a blindare la democrazia rappresentativa per farne una vera e propria democratura.

5) Parafrasando Carl Schmith, il populismo, forse con l’unica eccezione dello Chavismo, non conosce mai un vero stato di eccezione e non è mai sovrano in esso. Pertanto non conosce la dialettica politica come antagonismo tra amico e nemico ma solo tra competitor, al massimo tra avversari che si legittimano nel teatrino della democrazia rappresentativa. Lo vediamo in questi giorni. I 5s votano Sassoli del PD come presidente del parlamento europeo e forse si preparano a candidare un Piddino come prossimo presidente della Repubblica. Un nemico non si vota mai. Un avversario sì.

6) Il populista sia di destra che di sinistra tende a semplificare il quadro politico in una logica binaria popolo-élite, dimenticando che questa divisione c’è sempre stata nella storia dell’umanità e che essa è solo l’apparenza dietro cui si nasconde la forma-capitale, differente dalla forma feudale e schiavistica. L’élite’ oligarchica oggi è una élite globale, dal volto coperto, ha un potere di corruzione e dissuasione dei popoli e delle classi dirigenti nazionali, e soprattutto ramificazioni, addentellati, casematte (per dirla con Gramsci) a difesa delle sue fortezze, che i despoti del passato potevano solo sognare. Il populista fa della opposizione binaria popolo élite un feticcio che maschera i rapporti reali. L’élite non è una super class al di sopra della borghesia, come pensa Fusaro e Laclau, ma è la frazione dominante, più ricca e potente di essa. Il popolo, solo nominato, è un velo interclassista per nascondere i fili che legano i produttori alla forma capitale. Bisogna ricondurre il binomio popolo élite alla sua radice capitale-lavoro o capitale-non-lavoro. Facendo luce sui settori intermedi che vanno dall’aristocrazia del lavoro ai ceti medi benestanti, che nominarli come popolo, nonostante abbia efficacia propagandistica, significa coprirli sotto un manto che annulla le differenze, opacizza il reale (è la notte i cui i gatti sono tutti neri). Come la negriana categoria di moltitudine!

7) Il populista sia di destra che di sinistra dimentica con troppa facilità che la conquista della maggioranza parlamentare e del governo non è il deus ex machina, non è la dimensione risolutiva del politico, perché non è ancora la conquista dello Stato. Il quale è costituito da almeno altri 5 poteri (potere giudiziario, potere legislativo, esercito e forze armate, mass media, monopolio privato dei grandi mezzi di produzione) e di altrettante casematte (banca centrale, scuola, editoria, sindacati, cooperative, banche private etc). Lo stato è costituito di roccaforti, non è un campo di gioco, una sede agonistica, limitata al parlamento, come pensa Laclau e Mouffe, dove le forze egemoniche si disputano la vittoria, spostando in avanti o indietro le frontiere dello scontro. La conquista della maggioranza parlamentare se non prelude all’occupazione popolare degli altri poteri rimane un bluff, che lascia in essere solo l’apparenza e la finzione del cambiamento.

8) Il populista di destra e di sinistra effettua una riduzione di complessità del reale che spesso fa sparire il reale lasciando solo la sua ombra, la sua caricatura complottistica. Ne abbiamo un esempio sul tema dell’immigrazione, in riferimento al quale, come dimostra il governo giallo verde, si instaura una convergenza quasi totale tra populismi. In sostanza, le migrazioni dei popoli, che sono un dato permanente del capitalismo sin dalla sua nascita (si pensi alle enclosures e alle prime migrazioni dalle campagne alle città, o alle ultime migrazioni interne di 300 milioni di contadini cinesi verso le grandi metropoli) ed oggi ancor più devastante a causa dei crescenti squilibri economici, ambientali e demografici, vengono fatta passare allegramente come un complotto sorosiano delle élite cosmopolite per sostituire i popoli e abbassare i salari (dottrina Kalergi). Cancellando con un colpo di spugna tutta la complessa dinamica interna della forma capitale. Per Marx l’esercito industriale di riserva si costituiva per effetto delle leggi di movimento del capitale, e non come decisione politica di qualche massoneria segreta.

9) Il populista di destra e di sinistra dimentica che c’è un altro tipo di populismo, un populismo liberale (in Italia, Berlusconi e Renzi, in Francia Macron) creato ad hoc dall’élite sfornando, all’occorrenza, leader di plastica costruiti in laboratorio, virtuali salvatori della patria, che personalizzano all’eccesso il quadro politico, facendo credere al popolino che la chiave per la risoluzione di tutti i problemi passa dalle loro uniche mani. Ma se tutti sono populisti nessuno è più populista e il populismo rischia così di diventare un vuoto simulacro. Come nelle parole del Gattopardo di Tommaso di Lampedusa, che ritrae il vizio storico delle classi dirigenti occidentali: cambiare tutto per non cambiare nulla. Destra, sinistra centro si convertono cosi in populismo di destra, populismo di sinistra populismo di centro, con l’aggravante di avere sempre meno proporzionale e più maggioritario, meno democrazia rappresentativa e più democrazia rappresentata, personalizzata.

10) Il populista vezzeggia e corteggia il popolo, gli liscia il pelo, per poi tradirlo una volta giunto al governo. Scagiona sempre il popolo da ogni responsabilità e se poi accade che esso gli volta le spalle rivotando gli uomini di plastica dell’élite (come è accaduto in Grecia questi giorni… con la sconfitta di Tsipras e la vittoria di Nuova Democrazia) i cittadini sono sempre perdonati, perché spinti dalla disperazione si aggrappano a qualsiasi speranza. Peccato che in Grecia invece di aggrapparsi al male minore dei comunisti o di Varoufakis si siano aggrappati al male peggiore degli uomini del memorandum, pochi anni prima sonoramente bocciato. Ragione o delirio del popolo?

11) Il populista di destra e di sinistra ragiona sempre in una ottica binaria e dualistica. Abbiamo la dimostrazione di come egli faccia parte di una cultura “normale”, insufficiente a comprendere il pensiero dialettico, la complessità del reale, la sottigliezza e la profondità di talune argomentazioni. Mai accetta un pluralismo di posizioni e punti di vista, fuori dal bianco e dal nero dominanti. Se gli dici che sei contro Putin ti dirà che sei a favore di Trump o della Merkel. Se condanni i crimini di Assad ti dirà che sei un sionista. Se accetti la teoria del Global worming sei un venduto al pensiero unico dominante. Se riconosci i diritti democratici dei gay e delle minoranze sei un LGTB e quindi un europeista sorosiano. Se gli dici che sei all’opposizione di questo governo ti dirà che sei alleato dell’élite. Non concepisce un terzo campo anticapitalistico e qualora lo concepisse direbbe sempre che è prodotto di visionarietà ed utopismo. Meglio tenersi questo Stato per farne al massimo uno Stato etico in senso hegeliano e gentiliano (Fusaro). Il campo da gioco dove si sfidano le forze egemoniche può essere occupato solo da due forze, in una ottica che ricorda il bipolarismo all’americana.

12) Il populista di destra e di sinistra ricorre spesso ad una fraseologia anticapitalista per conquistare il consenso delle masse, ma una volta al governo l’abbandona, e finisce sempre per rimanere nel quadro delle compatibilità capitalistiche, senza mai radicalizzare lo scontro, senza mai chiamare il popolo a manifestare e sollevarsi contro l’infiltrato esterno, che all’inizio indicava come responsabile della crisi. Una volta al governo il populista relega il popolo nella posizione di spettatore passivo che può solo affidarsi al piano di salvezza del leader. Guai disturbare il grande timoniere e se qualcuno ci prova incorre nelle maglie del “decreto sicurezza” che inasprisce le pene per chiunque chiami alla sollevazione o a semplici blocchi stradali.

13) Il populista non avendo armi per combattere l’oligarchia, che non sia la impotente fraseologia anti-elitaria, si rivolge in basso per costruire il nemico e aizzargli contro la frustrazione del popolo. Alza la voce e mostra i muscoli contro gli ultimi, gli immigrati in balia delle onde, i piccoli criminali, i piccoli spacciatori etichettati come vermi, i piccoli mafiosi a cui si distrugge la casa salendo su una ruspa, in diretta streaming. Da notare che sul terreno della lotta all’immigrazione e alla piccola delinquenza, il popolo sceglie sempre l’originale (il populista di destra) e non la brutta copia (il populista di centro-sinistra). Così accade che Salvini asfalta Di Maio nei consensi e costui, per non perderne ancora, si atteggia a numero due della Lega, senza capire che più insegue Salvini sul suo terreno più ne esce con le ossa rotte!

14) Il populista di destra e di centro-sinistra blocca i porti quando sono insidiati da battelli pieni di immigrati, guai a bloccarli quando in quei porti sopraggiungono navi costipate di armi della Nato, o da quei porti partono cargo pieni di bombe, indirizzati alla monarchia saudita per annientare il popolo yemenita (100.000 civili uccisi in pochi anni nell’indifferenza del main stream). Mission impossible bloccare a Gioia Tauro le navi che riversano cocaina colombiana nei mercati europei!
POPULISMI SENZA POPOLO per una critica marxista del populismo

   Crisi colossale di legittimazione delle classi dirigenti mondialiste, sfaldamento del blocco storico che le univa alle borghesie nazionali (uscite perdenti dal confronto mondiale) e ai ceti medi abbandonati ed in via di pauperizzazione. Ecco il quadro socio-politico, la miscela che ha dato vita alla ribellione populista in occidente e che ha trovato espressione in Trump, Le Pen, Salvini, Movimento 5s, Iglesias in Spagna, Tsipras in Grecia, Farage in Inghilterra etc.

   Se all’inizio la rabbia popolare aveva trovato una sponda in formazioni populiste di sinistra (Tsipras in Grecia, Iglesias in Spagna, 5s in Italia, Melenchon in Francia, Corbyn in Inghilterra), nel giro di poco tempo si è riversata in formazioni populiste di destra. Oggi il populismo occidentale è quasi completamente egemonizzato dalla sua variante destra.

   Il caso italiano rappresenta una vera anomalia nel panorama mondiale perché è l’unico laboratorio in cui populismo di destra e di sinistra si sono incontrati stringendo una alleanza di governo. Nella formula però di un contratto sempre più fragile e favorevole alla Lega, che in un anno ha calamitato ben 4 milioni di voti dal suo diretto alleato.

   Cerchiamo di capire la natura di questo populismo, i suoi punti di forza e di debolezza, i suoi cavalli di battaglia. Al di là di un anti-europeismo di facciata e di uno spirito anti-establishment solo urlato e battipugnista, la proposta politica si sostanzia in una formula di compromesso sempre instabile e mai raggiunto con l’élite, di stop and go delle accuse, di negoziazioni estenuanti e differite sullo zero virgola del deficit, di trattative al ribasso sulle massime cariche della governance europea. L’unico terreno su cui il populismo europeo e italiota sembra mantenere fermezza e rigidità è quello della lotta all’immigrazione, scenograficamente combattuta a suon di porti chiusi e fili spinati alzati.

   La variante destra del populismo, di cui il salvinismo è massima esemplificazione, si sostanzia in neoliberalismo in economia (flat tax) , stato debole nei confronti del mercato e stato forte nei confronti della società civile (decreto sicurezza) e degli immigrati. In politica estera totale soggezione all’imperialismo americano, condanna dei populismi bolivariani, difesa del bolsonarismo e del sionismo etc.

   Se prescindiamo dal movimento 5s stelle, la cui natura risulta sempre più qualunquista e gate-keeper del consenso, per evitare rivolte alla francese (stesso dicasi per Tsipras in Grecia), e proviamo a sollevare lo sguardo sul lungo periodo dei processi storici mondiali, la variante di destra del populismo si distingue da quella di sinistra, peronista e bolivariana, per alcuni tratti essenziali. Innanzitutto per la forma di attuazione: la prima fondata solo sulla cattura mediatica del consenso di una opinione pubblica polverizzata e priva di forti legami comunitari, la seconda radicata su movimenti di lotta antimperialisti e su vigorose reti di solidarietà popolare. In Venezuela, per quanto gli Usa abbiano provato con tre colpi di stato a spazzare via lo chavismo, esso ancora resiste. E’ vivo e vegeto perché congiunto ad un blocco sociale nazionalpopolare di grande forze e vigore, al cui confronto quello dei 5s in Italia è polvere di umanità, fluttuante negli eterei spazi.

   Sicché mettere nello stesso sacco il populismo occidentale e quello di latino americano è una operazione scorretta sia sul piano formale che sostanziale.

   La linea di faglia tra i due tipi di populismo, al di là della retorica anti élitaria e anti establishment, passa nell’essere i primi espressione di nazioni colonialiste o sub-colonialiste e i secondi di nazioni colonizzate. Nel poliverso mondiale dei populismi sarebbe più giusto posizionare quello grillino tra i populismi di centro, quello leghista tra i populismi di destra e quelli latino americano tra i populismi di sinistra.

   Il populismo di sinistra è aperto alla solidarietà con i popoli, ha un carattere formalmente antimperialista, ricerca alleanze con gli stati oppressi dall’occidente. Si radica su sollevazioni vere, su strutture di contropotere popolare che forgiano identità sociali e comunità di appartenenza. Il caso boliviano da questo punto di vista è paradigmatico: Il populismo di Morales si è affermato su una grande battaglia in difesa dell’acqua pubblica e dei beni comuni, in opposizione alle multinazionali e alle privatizzazioni imposte dal FMI.

   Il populismo di centro-destra occidentale cresce invece nel silenzio delle urne, ha come platea di riferimento più una opinione pubblica incazzata che un popolo in lotta, è il frutto della rabbia di folle solitarie che hanno perso privilegi durante la crisi e sono disposte a pensare che questa perdita è dovuta a chi sta peggio di loro. La condizione diffusa di sradicamento sociale, di disorientamento e di risentimento verso tutto e tutti è uno dei fattori chiave del populismo nostrano, difficilmente riconducibile ad una sola logica ideologica, e fortemente instabile sotto il profilo dell’appartenenza identitaria, con flussi di consenso che si muovono dall’una all’altra delle formazioni populiste in base agli umori del momento e alle capacità attrattive del capo-salvatore di turno.

   Dobbiamo chiederci: se così profonde sono le differenze tra populismi di destra e di sinistra perché allora insistiamo a unificarli sotto lo stesso nome? Perché hanno in comune dei limiti di fondo che ora proverò ad elencare:

1) La forma politica della rappresentanza costruita sul binomio massa – leader, senza salde intermediazioni e corpi intermedi (questi ultimi presenti invece nei tradizionali partiti di massa, PCI in primis, di epoca fordista, con solidi ancoraggi nei sindacati, nelle cooperative etc). L’autorappresentazione collettiva in un leader popolare, amato e visto dal popolo come il vero salvatore, il grande risolutore di tutti i problemi. Attenzione però, come spiega Marco Tarchi

“Il leader populista non va assimilato al capo carismatico (come nel fascismo dove il leader si libra in una eterea distanza dalle masse ndr). Deve si presentare qualità non comuni, ma non deve mai incorrere nell’errore di mostrarsi fatto di un’altra pasta rispetto all’uomo comune al quale si rivolge. La prima delle sue abilità consiste proprio nel non cancellare mai quei tratti, come il linguaggio o la gestualità che ne connotano la somiglianza con il pubblico dei suoi seguaci”

2) La tendenza a vedere la causa di tutti i problemi non nel sistema in se’ ma in un intruso che viene dall’esterno, che può essere l’incappucciato della finanza, l’euro, il politico corrotto, l’immigrato, l’ebreo, il terrorista, la multinazionale, da cui il leader ci deve difendere etc. Ma da marxisti sappiamo che l’usura, l’immigrazione, la finanziarizzazione, la corruzione, non appartengono alla sfera delle patologie ma a quella della fisiologia del sistema capitalistico. Non si può estirpare il frutto lasciando in vita la malapianta.

3) Altro tratto distintivo che accomuna tutti i populismi è l’illusione, tanto più evidente in periodo di crisi, di mettere d’accordo e accontentare tutte le classi senza intaccare le basi strutturali dei rapporti di produzione.

4) Il plebiscitarismo, il giustizialismo parolaio e l’appello diretto al popolo da parte del leader “carismatico” che si sostanzia in un rafforzamento del potere esecutivo a spese di quello legislativo, nella predilezione di forme presidenzialiste e golliste di governo. Tutto ciò nel solco di una generale tendenza della forma capitale post-moderna a blindare la democrazia rappresentativa per farne una vera e propria democratura.

5) Parafrasando Carl Schmith, il populismo, forse con l’unica eccezione dello Chavismo, non conosce mai un vero stato di eccezione e non è mai sovrano in esso. Pertanto non conosce la dialettica politica come antagonismo tra amico e nemico ma solo tra competitor, al massimo tra avversari che si legittimano nel teatrino della democrazia rappresentativa. Lo vediamo in questi giorni. I 5s votano Sassoli del PD come presidente del parlamento europeo e forse si preparano a candidare un Piddino come prossimo presidente della Repubblica. Un nemico non si vota mai. Un avversario sì.

6) Il populista sia di destra che di sinistra tende a semplificare il quadro politico in una logica binaria popolo-élite, dimenticando che questa divisione c’è sempre stata nella storia dell’umanità e che essa è solo l’apparenza dietro cui si nasconde la forma-capitale, differente dalla forma feudale e schiavistica. L’élite’ oligarchica oggi è una élite globale, dal volto coperto, ha un potere di corruzione e dissuasione dei popoli e delle classi dirigenti nazionali, e soprattutto ramificazioni, addentellati, casematte (per dirla con Gramsci) a difesa delle sue fortezze, che i despoti del passato potevano solo sognare. Il populista fa della opposizione binaria popolo élite un feticcio che maschera i rapporti reali. L’élite non è una super class al di sopra della borghesia, come pensa Fusaro e Laclau, ma è la frazione dominante, più ricca e potente di essa. Il popolo, solo nominato, è un velo interclassista per nascondere i fili che legano i produttori alla forma capitale. Bisogna ricondurre il binomio popolo élite alla sua radice capitale-lavoro o capitale-non-lavoro. Facendo luce sui settori intermedi che vanno dall’aristocrazia del lavoro ai ceti medi benestanti, che nominarli come popolo, nonostante abbia efficacia propagandistica, significa coprirli sotto un manto che annulla le differenze, opacizza il reale (è la notte i cui i gatti sono tutti neri). Come la negriana categoria di moltitudine!

7) Il populista sia di destra che di sinistra dimentica con troppa facilità che la conquista della maggioranza parlamentare e del governo non è il deus ex machina, non è la dimensione risolutiva del politico, perché non è ancora la conquista dello Stato. Il quale è costituito da almeno altri 5 poteri (potere giudiziario, potere legislativo, esercito e forze armate, mass media, monopolio privato dei grandi mezzi di produzione) e di altrettante casematte (banca centrale, scuola, editoria, sindacati, cooperative, banche private etc). Lo stato è costituito di roccaforti, non è un campo di gioco, una sede agonistica, limitata al parlamento, come pensa Laclau e Mouffe, dove le forze egemoniche si disputano la vittoria, spostando in avanti o indietro le frontiere dello scontro. La conquista della maggioranza parlamentare se non prelude all’occupazione popolare degli altri poteri rimane un bluff, che lascia in essere solo l’apparenza e la finzione del cambiamento.

8) Il populista di destra e di sinistra effettua una riduzione di complessità del reale che spesso fa sparire il reale lasciando solo la sua ombra, la sua caricatura complottistica. Ne abbiamo un esempio sul tema dell’immigrazione, in riferimento al quale, come dimostra il governo giallo verde, si instaura una convergenza quasi totale tra populismi. In sostanza, le migrazioni dei popoli, che sono un dato permanente del capitalismo sin dalla sua nascita (si pensi alle enclosures e alle prime migrazioni dalle campagne alle città, o alle ultime migrazioni interne di 300 milioni di contadini cinesi verso le grandi metropoli) ed oggi ancor più devastante a causa dei crescenti squilibri economici, ambientali e demografici, vengono fatta passare allegramente come un complotto sorosiano delle élite cosmopolite per sostituire i popoli e abbassare i salari (dottrina Kalergi). Cancellando con un colpo di spugna tutta la complessa dinamica interna della forma capitale. Per Marx l’esercito industriale di riserva si costituiva per effetto delle leggi di movimento del capitale, e non come decisione politica di qualche massoneria segreta.

9) Il populista di destra e di sinistra dimentica che c’è un altro tipo di populismo, un populismo liberale (in Italia, Berlusconi e Renzi, in Francia Macron) creato ad hoc dall’élite sfornando, all’occorrenza, leader di plastica costruiti in laboratorio, virtuali salvatori della patria, che personalizzano all’eccesso il quadro politico, facendo credere al popolino che la chiave per la risoluzione di tutti i problemi passa dalle loro uniche mani. Ma se tutti sono populisti nessuno è più populista e il populismo rischia così di diventare un vuoto simulacro. Come nelle parole del Gattopardo di Tommaso di Lampedusa, che ritrae il vizio storico delle classi dirigenti occidentali: cambiare tutto per non cambiare nulla. Destra, sinistra centro si convertono cosi in populismo di destra, populismo di sinistra populismo di centro, con l’aggravante di avere sempre meno proporzionale e più maggioritario, meno democrazia rappresentativa e più democrazia rappresentata, personalizzata.

10) Il populista vezzeggia e corteggia il popolo, gli liscia il pelo, per poi tradirlo una volta giunto al governo. Scagiona sempre il popolo da ogni responsabilità e se poi accade che esso gli volta le spalle rivotando gli uomini di plastica dell’élite (come è accaduto in Grecia questi giorni… con la sconfitta di Tsipras e la vittoria di Nuova Democrazia) i cittadini sono sempre perdonati, perché spinti dalla disperazione si aggrappano a qualsiasi speranza. Peccato che in Grecia invece di aggrapparsi al male minore dei comunisti o di Varoufakis si siano aggrappati al male peggiore degli uomini del memorandum, pochi anni prima sonoramente bocciato. Ragione o delirio del popolo?

11) Il populista di destra e di sinistra ragiona sempre in una ottica binaria e dualistica. Abbiamo la dimostrazione di come egli faccia parte di una cultura “normale”, insufficiente a comprendere il pensiero dialettico, la complessità del reale, la sottigliezza e la profondità di talune argomentazioni. Mai accetta un pluralismo di posizioni e punti di vista, fuori dal bianco e dal nero dominanti. Se gli dici che sei contro Putin ti dirà che sei a favore di Trump o della Merkel. Se condanni i crimini di Assad ti dirà che sei un sionista. Se accetti la teoria del Global worming sei un venduto al pensiero unico dominante. Se riconosci i diritti democratici dei gay e delle minoranze sei un LGTB e quindi un europeista sorosiano. Se gli dici che sei all’opposizione di questo governo ti dirà che sei alleato dell’élite. Non concepisce un terzo campo anticapitalistico e qualora lo concepisse direbbe sempre che è prodotto di visionarietà ed utopismo. Meglio tenersi questo Stato per farne al massimo uno Stato etico in senso hegeliano e gentiliano (Fusaro). Il campo da gioco dove si sfidano le forze egemoniche può essere occupato solo da due forze, in una ottica che ricorda il bipolarismo all’americana.

12) Il populista di destra e di sinistra ricorre spesso ad una fraseologia anticapitalista per conquistare il consenso delle masse, ma una volta al governo l’abbandona, e finisce sempre per rimanere nel quadro delle compatibilità capitalistiche, senza mai radicalizzare lo scontro, senza mai chiamare il popolo a manifestare e sollevarsi contro l’infiltrato esterno, che all’inizio indicava come responsabile della crisi. Una volta al governo il populista relega il popolo nella posizione di spettatore passivo che può solo affidarsi al piano di salvezza del leader. Guai disturbare il grande timoniere e se qualcuno ci prova incorre nelle maglie del “decreto sicurezza” che inasprisce le pene per chiunque chiami alla sollevazione o a semplici blocchi stradali.

13) Il populista non avendo armi per combattere l’oligarchia, che non sia la impotente fraseologia anti-elitaria, si rivolge in basso per costruire il nemico e aizzargli contro la frustrazione del popolo. Alza la voce e mostra i muscoli contro gli ultimi, gli immigrati in balia delle onde, i piccoli criminali, i piccoli spacciatori etichettati come vermi, i piccoli mafiosi a cui si distrugge la casa salendo su una ruspa, in diretta streaming. Da notare che sul terreno della lotta all’immigrazione e alla piccola delinquenza, il popolo sceglie sempre l’originale (il populista di destra) e non la brutta copia (il populista di centro-sinistra). Così accade che Salvini asfalta Di Maio nei consensi e costui, per non perderne ancora, si atteggia a numero due della Lega, senza capire che più insegue Salvini sul suo terreno più ne esce con le ossa rotte!

14) Il populista di destra e di centro-sinistra blocca i porti quando sono insidiati da battelli pieni di immigrati, guai a bloccarli quando in quei porti sopraggiungono navi costipate di armi della Nato, o da quei porti partono cargo pieni di bombe, indirizzati alla monarchia saudita per annientare il popolo yemenita (100.000 civili uccisi in pochi anni nell’indifferenza del main stream). Mission impossible bloccare a Gioia Tauro le navi che riversano cocaina colombiana nei mercati europei!



Marx e il populismo


   Alcune caratteristiche del populismo, elencate nella terza parte del mio saggio, ricordano molto la natura del bonapartismo descritta da Marx nel suo classico “18 brumaio di Luigi Bonaparte”:


«La Francia sembra dunque sia sfuggita al dispotismo di una classe soltanto per ricadere sotto il dispotismo di un individuo e precisamente sotto l’autorità di un individuo senza autorità…eppure il potere esecutivo non è sospeso nel vuoto. Bonaparte rappresenta una classe, anzi, la classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari… i contadini piccoli proprietari rappresentano una massa enorme ma senza essere uniti gli uni altri da relazioni molteplici. Il loro modo di produzione anziché stabilire tra di loro rapporti reciproci li isola gli uni dagli altri».[Karl Marx opere complete, ed. Riuniti, vol. XI, pag. 195]
   Quanto qui scritto da Marx non ci interroga forse sulla natura del populismo leghista, espressione di forze sociali piccolo borghesi e borghesi escluse dai vantaggi della globalizzazione, per questo incattivite, e che difficilmente si possono considerare “popolo” quanto piuttosto massa di individui dispersa, senza relazioni, e legata dall’unico collante dell’interesse, del calcolo monetario, della sicurezza nelle mura domestiche?
   Se c’è una similitudine forte tra populismi di destra e bonapartismo risiede nell’essere espressione della piccola e media borghesia impoverita, che vuole conservare vecchi privilegi messi a repentaglio dalla crisi. Il piccolo borghese populista di destra, la figura oggi dominante nel nostro paese, la vera melassa che decide con il proprio voto il destino dei governi, è in genere una figura sociale carica di pregiudizi, accecata dall’egoismo e dall’odio verso gli ultimi, e da sostanziale invidia verso le classi sociali superiori, che guarda sempre con riverenza, al massimo con sospetto, mai con l’odio che nutre il nemico.

«In pari tempo Bonaparte si considera rappresentante del popolo contro la borghesia e vuole entro la società borghese rendere felici le classi inferiori…Bonaparte vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le classi. Ma non può dare all’una senza prenderlo all’altra».K. Marx ibidem
Quanto ci narra questa analisi del salvinismo di oggi che vuole togliere persino le tasse ai ricchi e nello stesso tempo offrire un reddito di cittadinanza ai poveri!!



Come la vedono i liberali: populismo uguale fascismo

   Per questo alla fine ogni populismo si risolve in un nuovo oppio dei popoli che prolunga l’agonia del sistema e può preludere solo a due scenari: o ad una vera e propria restaurazione del vecchio ordine, che può prendere anche forme post-democratiche, illiberali e fascistoidi, o ad una trasformazione radicale del sistema. La fine indecorosa dei populismi di sinistra in Argentina, Brasile, Ecuador di contro alla saldezza e alla stabilità di chi le trasformazioni strutturali e le riforme agrarie le ha fatte davvero (Cuba), confermano ampiamente questa ipotesi.


Populismi senza popolo

Il più eclatante paradosso dei tempi postmoderni è l’affermazione dei populismi di destra senza popolo. Oggi il popolo, è una folla di individui solitari e rabbiosi, pronta ad assalirti perché sei Rom, per una partita di calcio o per una manovra automobilistica avventata, ma inerte e passiva verso i dominanti che riproducono l’infamia del mondo. Guardate il film di Gian Maria Volonté i fratelli Cervi, per capire cosa è un popolo! Uomini martiri che salgono sul patibolo a testa alta, con coraggio ed eroismo, sapendo di sacrificarsi per l’indipendenza e la libertà della propria gente. Dove li troviamo oggi questi esempi? Certo non più in Occidente, (forse con l’unica eccezione dei Gilet Gialli francesi, un vero popolo in formazione) ma fuori dai suoi confini. Popoli sono quello palestinese, curdo, siriano, venezuelano, cubano! Il resto, soprattutto in occidente, è opinione pubblica!
Scrive Zizek


«Qual è la situazione dell’Europa oggi? L’Europa è prigioniera tra le grandi tenaglie dell’America da un lato e della Cina da un altro. America e Cina, viste dal punto di vista metafisico, sono la stessa cosa: l’identica frenesia senza speranza della tecnologia smodata e dell’organizzazione sradicata dell’uomo medio. Quando l’angolo più lontano è stato conquistato tecnicamente e può essere sfruttato economicamente, quando qualsiasi avvenimento si voglia, in qualsiasi luogo si voglia, in qualsiasi momento si voglia, diviene accessibile esattamente alla velocità che si vuole; quando attraverso la tv in diretta si può fare simultaneamente l’esperienza di una battaglia nel deserto dell’Iraq e dell’esecuzione di una opera a Pechino; quando in un network digitale globale, il tempo non e’ nient’altro che velocità, istantaneità e simultaneità, quando un vincitore in un reality show vale come il grande uomo del popolo; allora si continuano a incombere come uno spettro su tutta questa agitazione le domande: a che pro? Dove stiamo andando? Che fare?» [Slavoj Zizek, Indifesa della cause perse. Ponte alle grazie. Pag. 343]
   Il populismo di destra e di sinistra opera, almeno a parole (perché nei fatti il popolo è stato sempre comandato, suddito e mai sovrano) una vera metafisica del popolo, inteso come ente sociale universale, depositario di ogni ragione, verità, sovranità, fonte di ogni giustizia e legalità. Alla metafisica del progresso della sinistra liberal (analizzata nella prima parte di questo saggio) sostituisce la metafisica del popolo in progress verso il regno di un sempre maggiore e illimitato benessere.

   Ma i popoli non sono tutti uguali e non sono sempre identici e se stessi! Il popolo statunitense, diviso tra una parte bianca dominante wasp e tante minoranze nere ed ispaniche, sottomesse e separate nei propri ghetti, può essere definito un popolo? Ed inoltre possiamo indicarlo come esempio di “popolo progressista”, veicolo e messaggero di valori di libertà e di giustizia? A giudicare dalla storia degli ultimi 120 anni non mi pare proprio. Il popolo israeliano, che schiaccia da 70 anni sotto il proprio tallone di ferro quello palestinese, come fece il popolo francese con l’algerino, e quello inglese con l’Indiano, hanno la stessa dignità? Si possono rappresentare entrambi con gli stessi

Per i liberali spagnoli Pablo Iglesias imita… Mussolini


caratteri? L’orda famelica ed allucinata dei conquistadores che razziava le Americhe, con in una mano la bibbia e nell’altra la spada, facendo strage di popolazioni native e di bisonti, che posto occupano nella storia? I tre milioni di soldati dell’operazione Barbarossa sostenuti da altrettanti milioni di tedeschi giubilanti, potevano auto-rappresentarsi come popolo? O dovremmo sbatterci il suffisso S-u-b? Le folle allucinate della repubblica di Salò, raccolte attorno alle bandiere dell’invasore tedesco, tra il 1943 e il 1945, potevano essere assimilate nella categoria nazional-popolare italiana? E i vietnamiti del sud che combattevano nel 1966-75 a fianco dei marines contro i vietcong, dove li collochiamo?

   Qui vale una massima degli anni sessanta: “un proletario che diventa celerino non è più proletario è uno sbirro!” Un crumiro che sabota uno sciopero, anche se morto di fame, è sempre un agente dell’oppressore! La categoria del popolo buono contrapposto all’élite corrotta, è semplicistica, superficiale, primitiva, impolitica, astratta, priva di distinzioni, esattamente come quella negriana della “moltitudine” antitetica all’impero”.

   Popolo è il soggetto storico che si contrappone al sovrano oppressore, è il servo che lotta contro il padrone, tutto il resto è plebs! Il popolo non sarà mai sovrano come popolo, ma come oltre-popolo, come non-popolo. Sovrano è il popolo che opera per abolire se stesso come sovrano astratto, come ente suddito di un sovrano reale.

Scriveva Trotsky:

«Le masse non sono mai esattamente identiche: vi sono masse rivoluzionarie; vi sono masse passive, vi sono masse reazionarie. Le medesime masse sono, in periodi differenti, ispirate da propositi e da obiettivi diversi». Trotsky, moralisti e sicofanti contro il marxismo, 1939.
   Il popolo italiano nel 1936 inneggiava a Mussolini ed esultava per lo sterminio con i gas del popolo etiope. 9 anni dopo era un altro popolo che celebrava la liberazione impiccando a piazzale Loreto Mussolini. Ma non faceva in tempo a concludere i festeggiamenti, che era già caduto sotto la tirannia di un altro dispotismo morbido: quello americano, accolto con osanna e grida di giubilo. Scagionare sempre il popolo dalle sue responsabilità sulle atrocità della storia e vederlo contemporaneamente come pilastro di ogni progresso e sorgente di ogni sovranità è alquanto discutibile. Forse è anche per questo che sono state scritte le costituzioni. Per limitarne la sovranità, quando essa deraglia verso abissi di crudeltà. Ricordo che i criminali Hitler, Mussolini e Stalin hanno goduto per molto tempo di un invidiabile sostegno di massa. Erano anche essi un frutto maturo, seppur degenere, della sovranità popolare!



GRAMSCI, IL POPULISMO E IL GOVERNO GIALLO-VERDE

   Il tentativo di Laclau di stabilire un ponte ed una correlazione tra la sua teoria del populismo e le categorie Gramsciane di forza egemonica, blocco storico e sociale, carattere nazionalpopolare, è destituito, a mio avviso, di ogni ragione. Gramsci non era un populista ma un comunista, realista e pragmatico, per molti aspetti elitista, [1] e proprio a partire dalle categorie del politico, argutamente sviluppate nei Quaderni dal Carcere, oggi avrebbe derubricato il populismo come una variante morbida di cesarismo o di “sovversivismo delle classi dirigenti”, laddove quella fascista è la variante più irriducibile e pericolosa. [2]
   Gramsci di certo non avrebbe chiuso le porte in faccia ex abrupto alla forma populista, come tutta la sinistra liberal. Avrebbe cercato di indagare ed accogliere gli elementi di novità, relativamente progressivi del fenomeno populista, come fattori che annunciano la disgregazione del vecchio e l’insorgere del nuovo, l’emergente configurazione di nuovi rapporti politico-sociali. Ciò è ben evidente nel giudizio che lui offre sull’affare Dreyfus, che sembra una descrizione del governo giallo-verde, almeno nella prima fase:

«Del tipo Dreyfus (che ha impedito l’instaurazione di un cesarismo completamente reazionario) troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali, un personale diverso e più numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente “progressivo” in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure forze marginali, ma non assolutamente progressive. In quanto non possono “fare epoca”. Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell’antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in proprio». A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, vol. 3, pag. 1681, Einaudi 1977
   In questa proposizione è evidente il richiamo alla teoria marxista del bonapartismo come forza politica del campo dominante che si impone in determinate fasi di radicalizzazione del conflitto, per calmierare le divisioni sociali, riportare ordine ed equilibrio, non solo tra le classi antagoniste, ma tra le stesse frazioni concorrenti della classe dominante. Un ordine incarnato in un capo carismatico che vorrebbe mettere tutti d’accordo, è tuttavia esso stesso instabile, perché espressione di forze che non hanno capacità e volontà ricostruttive in proprio.

«Quando la crisi non trova una soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che, nessun gruppo, ne’ quello conservativo ne’ quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone». A. Gramsci ibidem pag. 1604
   Il governo giallo-verde è la classica espressione di una gramsciana crisi di egemonia o crisi di autorità dello Stato, che si instaura quando la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica (neoliberalismo) e non ha più il consenso passivo delle masse, che di colpo passano a rivendicare un cambiamento, anche se in modo disorganico (elezioni del marzo 2018).
Anche qui la la traiettoria di sviluppo di governi che non siano espressione autonoma delle classi subalterne, ma tentativi disorganici e interclassisti di recuperare consenso da parte dei dominanti, e di riportare la collera popolare nel perimetro delle compatibilità sistemiche, è ampiamente prevista nei Quaderni dal Carcere:
«La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo, con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone ad un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato». Ibidem pag. 1603
Un quadro perfetto della natura e dei limiti del populismo! Non sfugga il riferimento alle proposte demagogiche che spesso sono la vera carta di identità del politico populista.
«Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini, particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi particolari)». A. Gramsci ibidem pag. 772
   Nella stessa pagina Gramsci, come volesse stupire il suo lettore, opera una fondamentale distinzione tra “demagogia deteriore” e “demagogia superiore”. Alla prima possiamo associare la demagogia del politico populista, alla seconda quella del politico rivoluzionario.

«Se il capo rivoluzionario non considera le masse umane come uno strumento servile per raggiungere i propri scopi, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera costituente costruttiva, allora si ha una demagogia superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui, e di interi strati culturali. Il demagogo deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a se, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato capo carismatico). Il capo politico dalla grande ambizione invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra se’ e la massa, a suscitare possibili concorrenti ed eguali, ad elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista o di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno di un singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborare uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine carismatica deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e della continuità». A. Gramsci. Ibidem pag. 772
   Il peggior dirigente è quello che si rende insostituibile e in questa categoria rientrano i dirigenti populisti che generalmente si servono del popolo per promuovere le proprie ambizioni personali, la propria sete di potere e di notorietà. Non è un caso che quasi tutte le esperienze populiste siano finite con la morte o la defenestrazione del Leader Maximo. Un caso da manuale è proprio il peronismo, movimento politico argentino che ha vissuto per intero le peripezie esistenziali, l’ascesa, il trionfo e la caduta del suo leader. I 5s, a loro volta, non pagano pegno per la diserzione e l’auto-eclissi del suo leader carismatico?
   Ma non è il caso di Cuba, della Cina, dell’Urss pre-staliniana, del Vietnam. In questi paesi, seppur lontani dal socialismo, i capi carismatici hanno contribuito a creare gruppi dirigenti solidi, con i caratteri della permanenza e della continuità. Alla loro dipartita il paese non è precipitato nel caos perché non si sono resi insostituibili, anzi hanno operato per un ricambio di forze ed energie ai vertici dello Stato.

   Il capo populista ricorre all’arma della deteriore demagogia, fa appello plebiscitariamente alla massa per imporsi su di essa, anche al costo di blandirla, di lusingarla con proclami giustizialisti, di corromperla con prebende e offerte assistenziali. Il suo motto è la triade: piazza, popolo e balcone (oggi sostituito dalla tv e dalla società dello spettacolo).
   Il capo rivoluzionario, viceversa, si adopera’ affinché rinneghi la sua origine carismatica, elevi la massa a classe dirigente, a protagonista diretta del suo destino storico di liberazione. Si abbassa per elevare gli ultimi e non si eleva per riprodurli come tali. Favorisce il ricambio organico della direzione, l’afflusso di energie dal basso verso l’alto, la democrazia diretta, la candidabilità degli ultimi ai vertici di responsabilità direttive, la sostituibilità di ogni dirigente ad ogni livello di direzione. Solo attraverso questo flusso ascendente e discendente di forze ed energie sociali si può tentare l’assalto al cielo, l’instaurazione della democrazia socialista e il superamento del dominio di classe.

«La soluzione del problema può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto più numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre più la massa». A. Gramsci ibidem vol. 1 pag. 232-237
   Rifletta chi si illudeva che un cambio di governo così disorganico, come quello gialloverde, potesse significare un cambio di potere. Il potere in Italia, dal marzo 2018, è rimasto saldamente nelle mani del grande capitale che lo ha utilizzato per abbassare sempre di più le pretese che salivano dalle classi più povere, per deviare il corso di politiche irricevibili dal sistema, e last but not least per far applicare politiche antipopolari dallo stesso governo del “popolo”, così delegittimando e screditando i suoi rappresentanti. Chi meglio dei 5s avrebbe potuto far passare la Tav, la Tap, il Muos, il decreto sicurezza etc. senza rivolte di piazza, come accaduto in Francia? Quale regalo migliore per il grande capitale e la tenuta del suo sistema, che ad applicare le sue politiche siano i rappresentanti del “popolo”, i cosiddetti populisti e non oligarchi indigeribili alla Monti o Draghi?

   La dicotomia massa-leader, tipica di ogni esperienza populista, non ha mai spinto Gramsci a negare il ruolo del capo, della personificazione fisica della funzione di comando. Tutt’altro. Il comunista sardo era ben cosciente della necessità di capi con forti ambizioni (“un capo non ambizioso non è un capo scrive Gramsci, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco”) ma
«Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, dei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni più profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta?» A. Gramsci, Ordine Nuovo, 1 marzo 1924. [3]

   Chiaro qui l’intento di Gramsci di differenziare la funzione di un capo rivoluzionario come Lenin, che esprime l’autonomia e la missione storica delle classi oppresse, e di un capo popolo come Mussolini, che all’inizio, tra il 1919 e il 1924, prima che il fascismo diventasse regime, possedeva tutte le credenziali di “capo populista”, anche se nella forma inedita di un sovversivismo violento delle classi dirigenti.

   Nella complessa, a volte imperscrutabile e aporetica architettura dei Quaderni, Gramsci ritrae la storia politica italiana, dal Risorgimento in poi, con le due note categorie di trasformismo e rivoluzione passiva. Quest’ultima e’ un processo riformistico di cambiamento che agisce dall’alto sotto forma di concessioni alle richieste popolari, senza cambiare le strutture sociali esistenti, senza terrore giacobino e “senza cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice”. La forma-capitale raggiunge la sua espressione storica adeguata senza guerra di movimento, senza rivoluzione giacobina, ma con una lunga guerra di posizione. [4]

«Non sarebbe il fascismo precisamente la forma di rivoluzione passiva propria del secolo XX come il liberalismo (leggasi Risorgimento. Nda) lo è stato del secolo XIX? “, si chiede Gramsci. La risposta per Gramsci è sicuramente affermativa e si precisa ancor più ove afferma, in polemica con Croce, che “il trasformismo si presenta come forma della rivoluzione passiva dal 1870 in poi”. Ibidem pag. 1238 “si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’assorbimento graduale ma continuo degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici». Ibidem pag. 2011
   La cooptazione in corso dei 5 stelle e di parte della Lega nella nomenclatura europeista non è anche essa un episodio di trasformismo all’italiana? Come lo fu, dopo l’89, il passaggio di tutto il gruppo dirigente del PCI nel campo del neo-liberalismo?

   La lontananza di Gramsci dallo schematismo populista è ben evidente non solo nello stile ma nella proposta politica che teorizza esplicitamente uno “spirito di scissione” del servo dal padrone, della classe lavoratrice dal capitale, preliminare alla costituzione di un blocco storico di alleanze con tutti i settori popolari penalizzati dalla forma-capitale. Quindi non scissione come separazione e isolamento, come autocompiacimento operaistico, ma come atto preliminare per costituire un ampio fronte popolare di lotta, con una testa e un cuore forniti dalla classe lavoratrice e dalle sue organizzazioni di avanguardia.
   Trasceso il conflitto di classe, la radicalità è ricercata dai populisti nella coppia indeterminata e astratta popolo-élite, che tuttavia dovrebbe innalzare al comando non il popolo ma una nuova élite, che risponde unicamente al suo leader. Se il socialista preconizza l’autogoverno dei produttori, (la cuoca che amministra lo Stato), il populista al massimo può solo giungere a sostituire un élite con un’altra, lasciando il popolo nella sua condizione di sudditanza, senza mai giungere al superamento della coppia dicotomica servo padrone.
   Quindi se è vero che nel populismo si esprime una spinta popolare primitiva al cambiamento che occorre raccogliere e fare nostra, è altrettanto doveroso, gramscianamente distillare una critica dura allo schematismo e al primitivismo del politico populista, al “plebeismo privo di coscienza”, al “senso comune” di cui si fa portavoce. Per Gramsci riferirsi al “senso comune” come riprova di verità è un non senso, è un concetto equivoco e contraddittorio da sostituire con il rigore analitico e la capacità di afferrare la complessità dei processi, senza mai cedere a caricature semplicistiche del reale.
   Il “nazional popolare” in Gramsci non rinvia alla cultura folkloristica e agli “stregoni della scienza popolare”, alla “letteratura popolare” più deteriore e commerciale, ma alla più elevata cultura delle nazioni (dalla tragedia greca a Shakespeare fino al romanzo realista francese).
   Il populismo, semplificando al massimo grado il reale, opera come ideologia e falsa coscienza, come degradazione del pensiero dialettico, come ospite ubriaco nel teatro del conflitto sociale, come maschera che nasconde il nesso e la natura delle relazioni sociali. Quando una comunità non prende coscienza della vera natura dei rapporti e si ferma alle apparenze del basso e dell’alto (popolo buono-élite corrotta), del noi e del fuori di noi (autoctoni ed immigrati), non può mai elevarsi all’altezza dei suoi compiti storici. Rimanendo sempre comunità in potenza, comunità in se’ (e non per se’), quindi semplice parte variabile del capitale, o suo esercito di riserva.

Ciò era chiaro già a Machiavelli che distingueva sagacemente tra plebe come entità sociologica e popolo come ricomposizione politica.

NOTE
Nota 1
Non c’è dubbio che il pensiero politico di Gramsci, nonostante le critiche al Michels, vada annoverato nella categoria di elitismo rivoluzionario, che si distingue per una torsione soggettivistica, idealistica e volontaristica, del pensiero di Marx. Ciò è evidente fin dal testo scritto nel 1917 “la rivoluzione contro il capitale” ove per capitale si intende l’opera di Marx. Gramsci fa proprio il pensiero di Machiavelli con l’unica differenza che il moderno principe non è più il condottiero carismatico ma il partito politico. Elogia il trattato del fiorentino in quanto è appunto una trattazione non sistematica ma un libro vivente in cui l’ideologia diventa mito che si impersona in un condottiero, il quale diventa il simbolo e il creatore di una volontà collettiva nazionale e popolare. L’iniziale anti-giacobinismo di gioventù, che nel solco della tradizione teorica marxista si sposava con il suo consigliarismo, si rovescia nei “quaderni dal carcere” in apologia del giacobinismo, il quale viene interpretato senza mezzi termini come l’incarnazione storica del principe di Macchiavelli e quest’ultimo come un giacobino ante-litteram. I limiti storici e l’inadeguatezza della borghesia italiana, come classe dirigente nazionale, vanno attribuiti, per Gramsci, all’assenza di giacobinismo nella tradizione culturale e politica nazionale. Nella querelle infinita tra statalismo ed antistatalismo nella transizione al socialismo, Gramsci si colloca tra i pensatori che caldeggiano il riassorbimento della società civile nello stato piuttosto che l’estinzione dello Stato nella società civile, come pensava il Marx della critica alla filosofia del diritto di Hegel. Tale riassorbimento si doveva concretizzare nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva delle masse alla vita dello Stato, di cui il moderno principe era l’effettivo propulsore. A mio avviso è questo un altro aspetto essenziale che distingue politicamente il gramscismo dal populismo, e che colloca il Sardo tra le eretici più influenti dell’ortodossia marxista nel 900.


Nota 2


Attenzione: per completezza di analisi occorre rammentare che Gramsci faceva distinzione tra cesarismo progressivo (Napoleone I e Cromwell) e cesarismo reazionario (Napoleone III, Bismarck, Mussolini) e che non identificava il cesarismo con il fascismo tout court, se è vero che caratterizzava come forma di cesarismo persino il Governo di coalizione del laburista inglese Mac Donald (1932-35) con la destra conservatrice, famoso per l’attuazione di misure protezionistiche e anti-liberali (un Trump ante-litteram).


Nota 3


Occorre aprire qui una parentesi politico-filosofica. Oggi è difficile riproporre il mito della classe operaia, così come essa si era strutturata in epoca fordista e pre-fordista! L’operaio a cui si riferiva Gramsci non esiste più. Sostituito dal precario flessibile, atomizzato, spesso con partita iva. Ma resta il fatto che a questi nuovi soggetti produttivi occorre riferirsi per ricreare lo spirito Gramsciano di scissione e ricostruire un blocco storico popolare e una alternativa di sistema. Non è allargando la base del mito dalla classe lavoratrice al popolo in senso astratto e indifferenziato che potremo uscire dalla crisi di egemonia. Il socialismo o sarà l’autogoverno dei produttori o si ripresenterà nella forma della sua antitesi classista, cioè di un sistema elitistico e tecnocratico, di una paretiana ed eterna circolazione (o dominio) delle élite!


Nota 4


Il pensiero di Gramsci non è sistematico, proprio come il principe del Macchiavelli. A volte presenta forti aporie che lasciano il lettore macerarsi nel dubbio analitico. Per esempio come conciliare l’estatica esaltazione del principe machiavelliano, del popolo che si fa stato, con il marxismo che professa il socialismo come estinzione dello Stato? Come conciliare il giacobinismo di Gramsci con l’annuncio della fine della guerra di movimento (assalto bolscevico al Palazzo di Inverno) e la teoria della guerra di posizione, che apre all’ipotesi della transizione come una lunga e graduale rivoluzione passiva? Su queste aporie il Togliattismo ha puntato per spostare l’asse politico del PCI dal leninismo al riformismo (svolta di Salerno e democrazia progressiva). Su altre aporie, come la teoria del moderno principe, suscitatore di una volontà nazionale e popolare, Laclau ha tessuto la trama del suo libro “la ragione populista”.



Ernesto Laclau e il populismo come significante vuoto


   Ernest Laclau è stato forse il più grande teorico del populismo a sinistra, come Alain de Benoist lo è a destra. La riflessione di Laclau, trae spunto dai concetti espressi da Antonio Gramsci su egemonia e blocco sociale ma alla fine li declina in senso riformistico e democraticistico, depurandoli di ogni dialettica Schmithiana amico-nemico e di ogni approdo marxista-rivoluzionario.

   Sulla visione dell’Argentino Laclau ha influito molto il fenomeno del peronismo, che nel 900 è assurto ad archetipo del populismo ideale, come il mussolinismo lo è stato del fascismo. Sappiamo che sul peronismo la sinistra argentina si divise drammaticamente tra due componenti contrapposte, una [di matrice trotskysta, NdR] che offrì il proprio sostegno al governo Peron, cogliendo in esso una anima antimperialista e l’altra, facente capo allo [staliniano, NdR] Partito comunista argentino, che l’ha sempre osteggiato, tratteggiandolo come fenomeno semi-fascista e bonapartista.

   Per Laclau [ che iniziò la sua militanza politica con una delle diverse correnti trotskyste argentine, NdR], che esalta a più riprese l’autonomia del politico come il nostro Mario Tronti, non esiste la società senza il politico.
«Senza nodi egemonici —scrive Davide Tarizzo nella introduzione a La ragione populista —, il campo sociale semplicemente si dissolve, si disgrega, scompare: niente più pratiche sociali, niente più domande sociali, niente di niente a cui si possa affibbiare l’aggettivo di sociale. Ciò significa che noi viviamo pure oggi, consapevoli o meno che ne siamo, sotto l’ombrello protettivo di qualche formazione egemonica. Laclau ha chiamato questa formazione egemonica regime neoliberale….. Foucault l’ha battezzata biopolitica».
Facendo propria la critica gramsciana a certi esiti deterministici del pensiero marxista, e sottolineando l’inadeguatezza dei concetti originari del marxismo otto-novecentesco di proletariato e classe, Laclau scopre la centralità e positività del concetto di populismo, in quanto unico ambito in cui le classi povere possono disputare l’egemonia al regime neo-liberale.

   Interpolando la sua riflessione con le tesi psicanalitiche di Lacan, per Laclau il populismo è innanzitutto un concetto neutro, un significante vuoto. Significante vuoto non significa tabula rasa, un fenomeno politico senza significato, ma una dimensione simbolica che grazie alla sua vuotezza è in grado di assorbire molteplici elementi che altrimenti avrebbero difficoltà a stare insieme, e che unificandoli vanno a formare una macro-identità collettiva chiamata popolo.

   La domanda sociale può partire da un singolo gruppo (per esempio rivendicazione di più alloggi popolari, o di più lavoro, o di reddito di cittadinanza). Se essa viene accolta dal sistema la domanda trova una offerta e si estingue. Se non viene accolta si ha l’esclusione politica di quei soggetti, esclusione che attiva un processo di riconoscimento della condizione comune, un principio di creazione di identità collettiva.

   Se la domanda, per quanto condivisa all’interno del gruppo, rimane isolata, per Laclau si tratta di semplice domanda sociale. Ma se ci sarà un accumulo di domande inevase e una forza politica capace di unificarle si avrà l’attivazione di una domanda popolare, e l’evoluzione verso una configurazione populista. E’ quella che Laclau chiama catena equivalenziale.

   Popolo può essere visto sia come demos (corpo politico), sia come etnos (entità etnico nazionale religiosa), sia come plebe (massa di poveri e diseredati). Il popolo per Laclau assurge alla sua dimensione più elevata come demos. Il populismo in quanto forma suprema della costituzione del popolo come demos e quindi come soggetto storico, diventa l’atto politico per eccellenza. In questo senso la “ragione populista” equivale alla ragione politica, e il suo sprezzante rifiuto è un rifiuto del politico tout court.

   Per me che vengo da una tradizione marxista di pensiero è abbastanza facile trovare i pregi e il vulnus della concezione Laclauiana.

   Il pregio è nel perfezionamento della teoria gramsciana dell’egemonia. Il vulnus è averne provocato una torsione ancor più democraticistica, dopo che il togliattismo ne aveva già fatto la base del suo riformismo gradualista.

   Il Politico, la sovrastruttura in Laclau diventa l’elemento centrale e la struttura quello secondario. Sparisce dall’orizzonte politico ogni utopia della realizzazione della società senza classi e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

   La divisione sociale e l’antagonismo tra le classi non possono essere sradicati, ma solo attutiti. La democrazia rappresentativa diventa l’arena esclusiva dove le forze politiche si disputano l’egemonia, in una dimensione totalmente agonistica del politico, dove il nemico di classe viene riclassificato come avversario e il fine del politico populista, in una lotta di posizione che non è più guerra in senso gramsciano, è spostare le frontiere della divisione, facendole avanzare dopo aver unificato le domande sociali in una catena equivalenziale.

   Ma la storia non è un gioco di monopoli. L’esperienza di Salvador Allende lo dimostra. Se ti spingi troppo oltre una certa frontiera devi esser pronto alla guerra totale. Cosa che ha fatto il castrismo, il leninismo, il maoismo, vincendola, ma non il peronismo, il cui leader maximo fu prima accompagnato cortesemente in esilio e poi richiamato in patria dalle stesse classi dominanti che lo avevano tollerato al potere.


(Fine)


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