giovedì 9 aprile 2020



La teoria del valore-lavoro da Marx al capitalismo bio-cognitivo

di Mauro Pasquinelli 



* Questo lavoro è stato concepito nella seconda metà degli anni ’80 e finito di scrivere nel 1988. Non fu pubblicato per difficoltà di vario genere. Lo presento al lettore dopo averlo rivisto e arricchito con altri miei saggi sulla teoria del valore scritti negli ultimi anni.


INDICE

Premessa
La merce e il valore
Produzione mercantile e produzione capitalistica
La sostanza del valore
Dialettica del valore
Valore e rapporti sociali
Il feticismo della merce
La legge del valore e il plusvalore
La metamorfosi della legge del valore
Valori e prezzi
La legge del valore e la crisi
La legge del valore nel capitalismo monopolistico di Stato
La legge del valore su scala mondiale
Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
Tempo e valore nell’epoca dell’automazione
L’estinguersi della legge del valore del Socialismo
La legge del valore nella fase di transizione al Socialismo



Premessa

L’analisi marxista del modo di produzione capitalistico è fondata sulla legge del valore. L’antagonismo tra capitale e lavoro, i prezzi, il salario, il profitto, la rendita, l’interesse, le crisi economiche, la distribuzione del lavoro tra le differenti sfere produttive, in breve tutte le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico non potranno mai essere comprese, nella loro essenza e nelle loro manifestazioni fenomeniche, se si fa astrazione dal concreto operare della legge del valore-lavoro.

Nel 1953, Stalin e la sua scuola economica, per giustificare la presenza delle categorie mercantili in URSS, si spinse fino ad affermare che la legge del valore non è affatto la legge economica fondamentale del capitalismo. Quanto distante sia questa tesi dai principi esposti da Marx ne il Capitale è stato sottolineato dallo stesso Engels:

«la legge del valore è la legge fondamentale precisamente della produzione di merci e perciò della forma più alta di essa, la produzione capitalistica. Essa si afferma nella società attuale nella stessa maniera in cui unicamente possono realizzarsi leggi economiche in una società di produttori privati: come legge naturale insita nelle cose e nelle circostanze, indipendente dal volere e dall’agire dei produttori, ciecamente operante». (1)




LA MERCE E IL VALORE


La forma valore dei prodotti del lavoro non è sempre esistita: si afferma con la comparsa della merce. Bisogna quindi partire dall’analisi della merce per capire il vero significato della legge del valore.

Ad un primo esame appare subito chiaro che la merce non è un prodotto qualunque, ma un prodotto destinato al mercato, ad essere cioè venduto in cambio di un’altra merce.

Il vestito che una ragazza lavora per consumarlo nella sua famiglia è un oggetto d’uso non una merce. È merce invece il vestito prodotto da un artigiano per essere scambiato sul mercato, con denaro o con un altro prodotto. Quindi la qualità che fa del vestito una merce non è la sua forma specifica ma il genere di destinazione finale.

In generale un prodotto può assumere il carattere di merce quando non è più valore d’uso per il suo produttore o possessore ma valore d’uso per altri. Ma quali sono le condizioni storiche ed economiche perché un valore utile acquisti la forma di merce?

Rispondiamo con le stesse parole di Marx:

«Nell’insieme dei diversi valori d’uso o corpi di merci, si presenta un insieme di valori utili, altrettanto differenti secondo la specie, il genere, la famiglia, la sottospecie, la varietà. Una divisione sociale del lavoro: essa è condizione di esistenza della produzione di merci. Nell’antica comunità indiana, tuttavia, il lavoro è diviso socialmente senza che i prodotti diventino merci. Oppure, esempio a noi più vicino, in una fabbrica il lavoro è diviso sistematicamente, ma questa divisione non è derivata da uno scambio di prodotti tra un operaio e l’altro. Solo prodotti del lavoro privati, autonomi, indipendenti l’uno dall’altro, stanno a confronto l’uno con l’altro come merci». (2)

Quindi, avverte Marx, condizione fondamentale per l’esistenza della forma-merce è la divisione del lavoro e lo scambio tra produttori privati, autonomi ed indipendenti l’uno dall’altro.

Nelle antiche comunità primitive, sebbene fosse già presente una certa divisione sociale del lavoro, i prodotti del lavoro umano non costituivano merci, per il semplice motivo che non esistevano «produttori privati, autonomi ed indipendenti l’uno rispetto all’altro». I mezzi di produzione della vita materiale (il suolo, gli strumenti di produzione, il bestiame ecc…) erano di proprietà comune, ragion per cui i prodotti del lavoro non venivano scambiati ma semplicemente ripartiti o distribuiti tra i membri della comunità. «Il carattere comune della produzione faceva fin dal principio del prodotto un prodotto comune, generale». (3)

Al contrario «sulla base della produzione di merci e quindi sulla base dei valori di scambio, il lavoro viene posto come generale (come lavoro sociale n.d.r.) solo mediante lo scambio» ossia mediante la trasformazione del prodotto in merce, in valore di scambio. Il prodotto privato prima di divenire un prodotto sociale, di utilità sociale, deve essere commutato nella forma universale di un equivalente generale (il denaro).

In un sistema di produzione basato sulla produzione mercantile, quindi, il nesso sociale che lega gli individui tra loro, non si esprime attraverso la comunità umana bensì mediante una cosa, il valore di scambio, il denaro. Non è l’uomo al centro delle cose, ma le cose al centro del mondo umano.

«Il vincolo sociale – scrive Marx – si esprime nel valore di scambio nel quale soltanto per ogni individuo, la propria attività, il suo prodotto diventano un’attività e un prodotto fine a se stessi; egli deve produrre un prodotto generale – il valore di scambio – per trasformare il suo prodotto in un mezzo di vita per sé». E più oltre «il suo potere sociale, come il suo legame con la società egli se lo porta in tasca». (4)

Da qui deriva l’alienazione dell’uomo nel sistema dei rapporti di produzione capitalistici. L’individuo, per potersi affermare come essere sociale, è costretto a sottomettersi ad una cosa, il valore di scambio.

«E quanto più la produzione – prosegue Marx – si configura in modo che ogni produttore venga a dipendere dal valore di scambio della sua merce – come accade nella società capitalistica – tanto più cresce la potenza del denaro, cioè il rapporto di scambio si fissa come un potere esterno ed indipendente da essi. Ciò che all’inizio si presentava come un mezzo per promuovere la produzione, diventa un rapporto estraneo ai produttori. Il carattere sociale dell’attività così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione qui appare come qualcosa di estraneo agli individui; non come loro rapporto reciproco, bensì come loro subordinazione a rapporti che esistono indipendentemente da loro e che sorgono dallo scontro tra individui indifferenti gli uni agli altri. Lo scambio generale dell’attività e dei prodotti, divenuto condizione di esistenza per ogni singolo individuo, la loro connessione reciproca si presenta come estranea, indipendente, come una cosa». (5)




PRODUZIONE MERCANTILE E PRODUZIONE CAPITALISTICA


Abbiamo già potuto constatare che, nelle antiche comunità primitive, il prodotto del lavoro non era merce. I beni non venivano scambiati ma semplicemente ripartiti nella misura dei bisogni sociali. Tutto ciò escludeva la necessità dell’intervento del denaro e del famoso valore di scambio.

L’attribuzione del valore ai prodotti, la genesi della merce, è un fenomeno storicamente determinato, che si sviluppa di pari passo con la dissoluzione delle antiche comunità primitive, e con i primi progressi delle tecniche produttive.

In seguito allo sviluppo delle forze produttive le antiche comunità iniziano a produrre una quantità di beni che eccede gli stessi bisogni collettivi. Nascono da qui i primi scambi economici che rendono necessario l’intervento di un equivalente generale, il denaro, e che trasformano le eccedenze prodotte in merci, vale a dire in valori di scambio.

«Così la forma merce e il denaro penetrano nell’economia interna delle comunità associate direttamente per la produzione, rompono uno dopo l’altro i legami della comunanza e dissolvono la comunità in una schiera di produttori privati». (6)

Marx caratterizza l’intera epoca storica che va dalla dissoluzione delle antiche comunità al sorgere del capitalismo (XVI sec.) con l’attributo di «produzione mercantile semplice». Il movimento e il ciclo dello scambio, che definiscono questa fase di sviluppo, è M-D-M (merce-denaro-merce). Il denaro rappresenta un semplice intermediario dello scambio. Scopo del produttore di merci non è il profitto ma la ricerca di valori d’uso che non possiede. Ad esempio, il contadino si presenta sul mercato con proprie eccedenze di grano (M), ottiene in cambio denaro (D), per acquisire vestiti (M).

Con l’avvento del capitalismo, il ciclo dello scambio subisce un rovesciamento. Sul mercato si presenta infatti un nuovo individuo in possesso non di merci eccedenti, ma di denaro che vuol scambiare con merci (forza-lavoro, macchine, materie prime) per porre in essere un processo produttivo capace di fornirgli una somma di valori superiore a quella che lui stesso ha anticipato inizialmente. La nuova formula della scambio diventa così D-M-D+d1, dove d1 rappresenta proprio l’incremento di valore ottenuto dal capitalista alla fine del ciclo produttivo, in virtù dello sfruttamento della forza-lavoro del proletariato (quel d1 è il famoso plusvalore). L’espressione D-M-D+ d1 definisce, secondo Marx, il ciclo della produzione capitalistica.

Vediamo alcune differenze tra i due movimenti dello scambio (M-D-M e D-M-D+ d1). Il semplice possessore di merce (M-D-M) vende ciò di cui non ha bisogno per comprare ciò di cui ha bisogno. Al contrario, il capitalista acquista ciò di cui lui stesso non ha bisogno: compra per vendere e precisamente per vendere una somma di valore maggiore di quella che ha anticipato inizialmente. Il denaro che prima rappresentava un semplice strumento di intermediazione si trasforma nel principale obiettivo del processo produttivo.

Con il passaggio al ciclo capitalistico, non vengono più scambiate le eccedenze, ma si scambia tutto ciò che si produce, si produce esclusivamente per lo scambio. Ciò che viene prodotto non è più valore d’uso per il produttore (capitalista), ma rappresenta per esso semplice valore di scambio. «Quivi in genere i valori d’uso vengono prodotti soltanto perché sono depositari del valore di scambio». (7)

Insomma, il valore di scambio, questa categoria del tutto semplice, si manifesta nella sua forma compiuta solo nel modo di produzione capitalistico.




LA SOSTANZA DEL VALORE


Che cosa è che determina il valore di scambio delle merci, vale a dire il rapporto quantitativo con cui esse si scambiano?

Ad esempio, che cos’è che determina la proporzione con cui posso scambiare vestiti con grano? Il valore di scambio che mi consente di confrontare e scambiare queste due merci deve derivare per forza da un elemento comune ad esse, che non può essere certamente il loro valore d’uso, la loro utilità, poiché questa cambia a seconda delle circostanze e dei soggetti.

«Ma se si fa realmente astrazione dal valore d’uso delle due merci, scrive Marx, si ottiene il loro valore (…). Dunque, quell’elemento comune che si manifesta nel rapporto di scambio o nel valore di scambio delle merci è il valore delle merci stesse» (il valore di scambio è la forma fenomenica del valore; tuttavia il valore senza il valore di scambio è un non senso) la cui sostanza creatrice è il lavoro umano.

Dunque, il rapporto o il valore di scambio delle merci è determinato dal tempo di lavoro in esse incorporato.

Ad un’analisi più approfondita, scopriamo tuttavia che quest’ultima determinazione non è ancora sufficiente per stabilire i valori reali delle merci. Ad esempio, un agricoltore pigro che produce una certa quantità di grano in tre ore di lavoro, quando potrebbe produrla, date le condizioni sociali medie di produttività, in due ore, non ha prodotto maggior valore. Quell’agricoltore non fa così che sprecare un’ora del proprio tempo di lavoro che sul mercato non gli viene remunerata.

Pertanto, il valore reale della merce non è dato dal suo valore individuale ma dal suo lavoro sociale, in altre parole dal tempo di lavoro socialmente necessario (nelle condizioni sociali medie di produttività) per produrla.

Il valore ha quindi un’essenza sociale. Esso non esprime, come credono gli economisti borghesi, una particolare qualità utile dei prodotti del lavoro, ma un sistema di relazioni sociali.

Per di più, una teoria del valore che parta da una premessa soggettiva (la particolare qualità utile del prodotto del lavoro) presente in tutte le epoche storiche si è preclusa la possibilità di comprendere le leggi di movimento che regolano una data formazione sociale. «Gustando del grano, scrive Marx, non si sente chi l’ha coltivato, se un servo della gleba russo, o un contadino francese o un capitalista inglese». (8)




DIALETTICA DEL VALORE


Per determinare il valore reale della merce, occorre fare astrazione, oltre che dalla specifica utilità del bene, anche dalla specifica natura del lavoro in essa incorporato.

Lo scambio tra un vestito ed un kilogrammo di grano è scambio tra due generi di lavoro qualitativamente differenti – l’uno lavoro di tessitura, l’altro lavoro di agricoltura – che posso confrontare solo se considero entrambi come dispendio di lavoro generale ed astratto. Il lavoro di agricoltura e il lavoro di tessitura, benché rappresentino attività produttive di natura differente, implicano entrambi dispendio di muscoli, nervi, energie fisiche ed intellettuali. I due generi di lavoro possono trovare, quindi, una misura comune nel lavoro umano, astratto, indifferenziato, in essi racchiuso.

Abbiamo espresso così un’ulteriore determinazione concettuale. Il valore reale della merce è determinato dal tempo di lavoro astratto, socialmente necessario per produrla.

Uno dei contributi fondamentali dell’opera economica di Marx fu quello di aver dimostrato che il duplice aspetto del lavoro, in quanto lavoro concreto e lavoro astratto, è il riflesso immediato del duplice aspetto della merce, nella sua esistenza particolare di valore d’uso, e in quella universale, astratta, di valore di scambio.

È importante qui aprire una breve parentesi sula categoria dell’astrazione, utilizzata da Marx per comprendere i fenomeni sociali.

Nel procedere dall’astratto al concreto e dal concreto all’astratto risiede proprio la grande forza di penetrazione della realtà da parte del pensiero marxista-dialettico. «Salendo il pensiero dal concreto all’astratto – scrive Lenin – non si allontana quando è corretto dalla verità bensì vi si approssima. L’astrazione della materia, della legge naturale, l’astrazione del valore ecc, in una parola tutte le astrazioni scientifiche rispecchiano la natura e la società in maniera più profonda, più fidata, più completa. Dal vivo osservare al pensiero astratto e da questo alla prassi, ecco qual è la via dialettica della conoscenza della realtà». (9)

Il prodotto del lavoro (concreto), nel momento in cui viene scambiato con l’equivalente generale (astratto), il denaro, si trasforma nel suo opposto, in lavoro sociale.

Scrive Hilferding: «Il lavoro privato in particolare non si presenta immediatamente come aliquota del lavoro sociale, ma lo diviene soltanto in quanto si distacca dalla sua privatezza ed indipendenza e si trasforma nel suo contrario, nel lavoro astratto, questa potenza sociale estranea e a sua volta indipendente dai singoli lavori». (10)

Nel denaro il valore di scambio della merce acquista un’esistenza separata da essa e il lavoro privato ha assunto già la forma di lavoro sociale.

Non siamo di fronte ad un’identità astratta di tipo hegeliano tra lavoro individuale e lavoro sociale, ma di fronte ad un’antitesi.

L’antitesi tra lavoro individuale e lavoro sociale non è che un modo diverso di rappresentare l’antitesi tra valore d’uso e valore di scambio, insita in ogni merce, e che conduce periodicamente al fenomeno ben noto della crisi economica.

«Il rapporto del prodotto con se stesso in quanto valore di scambio diventa il suo rapporto con un denaro che esiste accanto ad esso (…) Come lo scambio reale dei prodotti genera il loro valore di scambio, così il loro valore di scambio genera il denaro». L’esistenza delle sue qualità naturali particolari e le sue qualità sociali universali «implica sin dal principio la possibilità che queste due forme di esistenza separate della merce non siano reciprocamente convertibili (…) Non appena il denaro è diventato una cosa esterna accanto alla merce, la scambi abilità della merce con il denaro è immediatamente legata a condizioni esterne che possono verificarsi o meno; è in balia di condizioni esterne. Nello scambio la merce viene richiesta per le sue qualità naturali in ragione dei bisogni di cui essa è oggetto. Il denaro invece soltanto per il suo valore di scambio»(11). Queste due esigenze, per quanto debbano condizionarsi reciprocamente, sono rette da leggi e motivazioni completamente diverse e possono entrare l’una con l’altra in profonda contraddizione.

Insomma, nella forma-valore che assumono i prodotti, è già contenuto il germe della crisi.




VALORE E RAPPORTI SOCIALI


Nella forma di produzione capitalistica, come in tutte le forme precedenti, la quantità dei prodotti del lavoro umano è definita e limitata, come per legge naturale, dai bisogni della società. Ciò che muta nelle diverse epoche storiche è la forma in cui si attua la distribuzione del prodotto sociale.

Nelle antiche comunità primitive, essa si esplicava attraverso il comune controllo sul processo di produzione e di consumo dei beni. La comunità non tollerava alcuna forma di controllo e di regolazione della distribuzione, che si ponesse al di sopra di se stessa.

Nel sistema mercantile e capitalistico, invece, la distribuzione del lavoro sociale si attua attraverso il Valore di scambio, ossia un’entità che è posta al di sopra dei rapporti sociali e che finisce per dominare gli stessi produttori.

Qui il valore di scambio è l’unico nesso sociale che unisce individui separati e reciprocamente indifferenti, individui che hanno perso la loro originale natura sociale. Il valore di scambio è ciò che rende sociali individui asociali. Ma, come è facile intuire, e qui sconfiniamo nel campo della filosofia, una socialità che si esprime attraverso una cosa, un’entità inanimata (il valore di scambio) è una socialità deturpata, negata.

La produzione mercantile, il valore di scambio, il denaro ecc, non sono categorie naturali, manifestazioni pure dell’essenza umana, come pensavano Smith, Ricardo ed i neoclassici, ma sono conseguenza della perdita della natura, in origine sociale, del lavoro umano.



IL FETICISMO DELLA MERCE


Con il dominio della merce, le relazioni tra gli uomini, le relazioni sociali, si manifestano come relazioni tra cose, oggetti. Il rapporto sociale dell’individuo non è una condizione a priori della sua esistenza, come avveniva ad esempio nelle società consumistiche primitive, ma si realizza solo a posteriori ed in forma indiretta ed alienata, attraverso il nesso del famoso valore di scambio. Questa è in sintesi la teoria del feticismo della merce che, come sostiene giustamente Rubin nel suo famoso saggio sulla teoria del valore di Marx, è alla base dell’intero sistema economico di Marx ed in particolare della sua teoria del valore.

«Alle naturali forme delle merci, spiega Marx, si attribuiscono ora proprietà che sembrano mistiche, fino a che non si spiegano le loro relazioni con i produttori. Come il feticista attribuisce al suo feticcio proprietà che non sono fondate nella sua costituzione naturale, così al rozzo economista le merci apaiono come una cosa sensibile, dotata di soprasensibili attributi (…) e quello che è in realtà un rapporto tra persone appare, nell’ambito feticistico della merce, come un rapporto tra cose». (12)

Incapace di comprendere che dietro lo scambio delle merci ciò che si esprime è una particolare forma di organizzazione sociale del lavoro, corrispondente ad un determinato livello di sviluppo delle forze produttive materiali, il feticista prende poi la forma sociale basata sul valore di scambio come una forma naturale, come una proprietà intrinseca delle cose stesse. Si arriva così alla piena reificazione delle persone e personalizzazione delle cose.

Inquadrata in questa ottica visuale, la teoria del feticismo della merce riacquista una centralità assoluta nella teoria marxista dei rapporti di produzione e della transizione.

Mentre l’attenzione dei classici era fissata sulla grandezza del valore, quella di Marx si sposta sulla forma-valore. L’attenzione di Marx è rivolta alle differenze di forma (forme socio-economiche, rapporti di produzione) che si sviluppano sulla base di determinate condizioni tecnico-materiali, ma che non devono essere confuse con queste. I classici avevano assunto la forma di merce come dato (perché non riuscivano a vedere dietro lo scambio di cose le vere relazioni umane). Marx invece [lo] pone come problema fondamentale perché, a certe condizioni i prodotti assumano la forma di merci e il lavoro la forma di valore e i rapporti tra i produttori la forma di rapporti tra prodotti.

La semplice posizione di questo problema implica l’assunzione strategica per tutta la teoria di Marx che il lavoro possa non assumere la forma di valore, il prodotto la forma di merce, i rapporti tra i produttori la forma di rapporti tra prodotti. Ma la risposta a tutti questi problemi Marx la fornì a partire dalla teoria del feticismo. Si tratta quindi di ridare a questa teoria un ruolo centrale che gli stessi “marxisti” più volte hanno dimenticato.

POST SCRIPTUM. La forma valore non solo nasconde il rapporto sociale dietro il velo delle relazioni tra cose, ma occulta lo stesso rapporto di sfruttamento tra le classi, ossia l’appropriazione del plusprodotto sociale da parte della classe dominante. Nelle società in cui la merce e il valore di scambio non hanno ancora acquistato una funzione dominante, come nella società feudale, l’appropriazione del plusprodotto avviene in forma diretta tramite il prelevamento da parte del signore feudale di una quota dei valori d’uso prodotti dal servo della gleba. Quest’ultimo lavorava sei giorni per il padrone ed un giorno per sé, onde lo stesso rapporto di sfruttamento era chiaramente quantificabile. Al contrario, nel modo di produzione capitalistico il reale rapporto di sfruttamento capitale-lavoro è occultato dietro il velo delle categorie di mercato (valore di scambio, salario ecc.). Un operaio non potrà mai stabilire quanto del valore da lui prodotto va nelle sue tasche e quanto nelle tasche del capitalista; anzi, il più delle volte il salario appare al lavoratore come una “giusta remunerazione”. «È evidente – scrive Marx – che il valore di tre scellini in cui si rappresenta la parte retribuita della giornata lavorativa, ossia il lavoro di sei ore, appare come valore o prezzo della giornata lavorativa complessiva di dodici ore che contiene sei ore non retribuite; la forma salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e non retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito. Nelle prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal lavoro coatto per il signore del fondo. Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito. Nel lavoro salariato, all’incontro persino il plusvalore ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza retribuzione». (13)




LA LEGGE DEL VALORE E IL PLUSVALORE


Il presupposto essenziale della formazione del plusvalore è lo scambio della merce forza-lavoro (con il denaro del capitalista) al suo vero valore, determinato dal valore dei mezzi di sussistenza necessari a tenere in vita l’operaio.

Qui è bene fare una precisazione. Il capitalista non compra il lavoro dell’operaio ma la sua forza-lavoro, il cui valore è determinato, come per qualsiasi altra merce, dal tempo di lavoro necessario alla sua produzione-riproduzione (valore dei mezzi di sussistenza). Il plusvalore, di cui si appropria il capitalista, non è altro che la differenza matematica tra il valore del lavoro realizzato dall’operaio e il valore della sua forza-lavoro.

Ne risulta quindi che la formazione del plusvalore non solo non è in contraddizione con la legge del valore, ma anzi ne rappresenta una manifestazione. «Per Marx quindi la legge del valore non è un postulato che in generale viene seguito, ma violato proprio nei confronti del lavoratore, bensì una necessità che in linea generale si applica sempre anche nel rapporto capitale-lavoro». (14)

La lunga digressione, per lo più incomprensibile, di Toni Negri, nel suo libro Marx oltre Marx, mirante a giustificare la sua adesione alla tesi secondo cui la presunta «legge del plusvalore» e non la legge del valore sia la legge fondamentale di movimento del modo di produzione capitalistico, appare quindi destituita di ogni fondamento. È la legge del valore a spiegare la formazione del plusvalore (e quindi la genesi del capitalismo) e non viceversa.

La legge del valore sta alla base della distribuzione del reddito tra le due classi sociali fondamentali e quindi del loro irriducibile antagonismo.



LA METAMORFOSI DELLA LEGGE DEL VALORE 


Come legge che regola lo scambio delle merci, la legge del valore opera da 7000 anni, da quando cioè presero piede le prime forme di scambio tra comunità limitrofe o nomadi o, il che è lo stesso, da quando esiste la produzione mercantile semplice. Ma significa forse questo che suddetta legge, in tutte le fasi e le forme storiche della produzione mercantile (circolazione semplice delle merci, circolazione del capitale nella fase concorrenziale, circolazione del capitale nella fase monopolistica, capitalismo monopolistico di Stato, collettivismo burocratico), abbia operato allo stesso modo e abbia potuto sviluppare sempre i suoi tratti più caratteristici? La risposta non può che essere negativa.

Infatti, mentre nel periodo della circolazione semplice delle merci (pre-capitalismo) la legge del valore operava in maniera accessoria, incidentale e circoscritta allo scambio del surplus del lavoro, eccedente i bisogni del piccolo produttore, nella fase della circolazione capitalistica la legge del lavoro finisce per regolare e determinare lo scambio di tutti i prodotti del lavoro, persino di quelli che entrano nel processo produttivo come suoi componenti materiali (mezzi di produzione, forza-lavoro, materie prime ecc.).

Dunque, è solo nelle condizioni capitalistiche che la legge del valore opera nella sua forma compiuta. Ma nel quadro di queste stesse condizioni, e più precisamente con il passaggio dalla libera concorrenza alla fase monopolistica, si sono realizzati mutamenti così profondi che hanno mutato sensibilmente la forma di attuazione e di manifestazione della legge del valore. L’istituzione di trust monopolistici sovranazionali (in grado in molti casi di determinare da soli i prezzi delle loro merci), il rafforzamento e l’istituzionalizzazione dei sindacati, l’azione regolatrice dello Stato hanno limitato decisamente l’operare della legge del valore come spontanea regolatrice del processo di accumulazione e di riproduzione del capitale.

Come fa notare l’economista bolscevico Preobazensky «nella sfera della regolamentazione dei prezzi da parte della legge del valore si produce un cambiamento: al momento dell’organizzazione in Trust dei settori produttivi più importanti all’interno di un paese, i prezzi si allontanano sistematicamente dal valore, nel senso di un aumento (anche se non sempre necessariamente). Con il Dumping (di cui a quanto pare i giapponesi sembrano essere diventati perfetti maestri, ndr) i prezzi si allontanano sistematicamente dal valore, nel senso di una diminuzione sul mercato estero e al contrario di un aumento all’interno del paese. La possibilità di eguagliare i tassi di profitto diventa straordinariamente difficile, fra i settori della produzione organizzati in Trust, che si trasformano in mondi chiusi, in regni feudali delle varie associazioni capitalistiche». (15)

Come avremo modo di vedere, la trasformazione del modo di operare della legge del valore significa non che essa abbia cessato di esistere, come ciarlano gli apologeti borghesi del post-industriale, ma che la borghesia ha limitato il suo libero e cieco operare per manovrarla ancora di più a suo vantaggio, allo scopo di accrescere l’estorsione del plusvalore complessivo ed evitare la bancarotta.




VALORI E PREZZI



«La scienza – scrive Marx – consiste appunto in questo, svolgere come la legge del valore si impone». (16)

Nel terzo volume de Il Capitale, Marx spiega che il modo specifico attraverso cui si impone la legge del valore nel capitalismo è il prezzo di produzione. In questo stadio di sviluppo le merci non si scambiano più ai loro valori – come accadeva nella fase mercantilistica – ma in base ai prezzi di produzione che generalmente divergono dai valori stessi. Analogamente, i prezzi di monopolio e di oligopolio, nella fase del capitale multinazionale, costituiscono la misura di valore prevalente che diverge sia dai valori reali delle merci che dai loro prezzi di produzione.

Insomma, la legge del valore, legge universale di ogni società mercantile, si impone in forme differenti a seconda del grado di sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali corrispondenti.

Alcuni economisti volgari si sono dilettati a cianciare su una presunta estinzione della legge del valore, solo perché essa oggi non si afferma più nelle forme caratteristiche del capitalismo concorrenziale. Ma come l’autore de Il Capitale fa notare, «le leggi della natura (e la legge del valore è una legge naturale della produzione mercantile) non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse è la forma con cui quelle leggi si impongono». (17)

Ciascuna legge sociale ed economica non esplica mai la sua azione allo stato puro e spesse volte va svelata penetrando nel complesso groviglio delle sue forme fenomeniche, le quali non di rado sono in apparente contraddizione con il contenuto stesso della legge. L’apparenza dei prezzi infatti sembra in questo caso contraddire la sostanza del valore, allo stesso modo in cui, nel campo dell’osservazione astronomica, l’apparenza del movimento del pianeta intorno al sole sembra contraddire la sua reale essenza.

«Se dunque si volessero spiegare a priori – scrive Marx – tutti i fenomeni apparentemente contrastanti con la legge bisognerebbe dare la scienza prima della scienza». (18) … Ma «scopo della scienza è quello di scoprire l’essenza dietro ogni falsa apparenza. Se i due coincidessero, la scienza non avrebbe alcuna ragione di esistere».

Fatta questa debita premessa, passiamo a vedere in che modo la legge del valore si impone attraverso i prezzi di produzione.

Per semplificazione, suddividiamo l’intera struttura economica in tre settori fondamentali: nel primo la produttività è inferiore alla media, nel secondo la produttività coincide con quella media, nel terzo invece è superiore. Il valore del prodotto di ogni settore seve a remunerare il capitale costante C (mezzi di produzione), il capitale variabile V (salari) e il plusvalore PL (profitto del capitale). Il valore della produzione di ogni settore può essere così espresso con la formula C+V+PL. Indichiamo con PL/V=100% la misura del saggio di plusvalore o del grado di sfruttamento che dir si voglia. Con C/V la composizione organica del capitale, ossia il rapporto tra il capitale investito in macchinari e il capitale investito in forza-lavoro. Schematicamente avremo:


C V PL valore P1 P1111 Pr d1

prodotto

1° Settore 50 50 50 150 50% 40% 140 - 10

2° Settore 60 40 40 140 40% 40% 140 0

3° Settore 70 30 30 130 30% 40% 140 +10


P1=saggio di profitto del settore; P1111=saggio medio del profitto; Pr=prezzo di produzione; d1=differenza tra P1111 e Pr.

Le condizioni di produttività nei tre settori vengono espresse dalla differente composizione organica del capitale in ognuno di loro. Il primo settore, meno produttivo, ha una C/V di 50/50, il secondo di 60/40 e il terzo di 70/30.

La concorrenza dei capitali, il loro flusso continuo, dai settori con un saggio di profitto inferiore ai settori con un saggio superiore livella i saggi individuali attorno ad una media generale, cioè a dire attorno ad un saggio medio di profitto che nello schema è del 40% per tutti i settori. (Ciò ci consente di dire che la legge del valore in regime capitalistico si realizza attraverso il prisma del profitto, del flusso e riflusso dei capitali verso i settori che garantiscono un saggio di profitto più elevato).

La somma dei prezzi di costo C+V (che nello schema è pari a 100 in tutti e tre i settori) con il profitto medio ci dà i prezzi di produzione, vale a dire i prezzi che i tre settori sono costretti a realizzare sul mercato. Ne consegue che il primo settore, quello meno produttivo, vendendo il proprio prodotto al prezzo di produzione, perde un 10% che gli viene strappato dal terzo settore, quello più produttivo. Il secondo settore, producendo nelle condizioni medie di produttività, vende il proprio prodotto al suo vero valore.

Da questo schema di funzionamento del sistema capitalistico allo stato puro, i fondamenti della legge del valore sono ben evidenti: il settore che produce merci con un tempo di lavoro inferiore a quello socialmente necessario sperpera lavoro sociale il cui valore non andrà certo in fumo ma verrà succhiato dal settore più produttivo. Siamo pertanto in grado di poter affermare che la legge del valore, indipendentemente dalla volontà dei singoli agenti della produzione capitalistica, e come legge naturale ciecamente operante, regola – oltre, come abbiamo detto, la distribuzione della ricchezza tra le due classi fondamentali, borghesia e proletariato – la distribuzione della massa totale del plusvalore prodotto dagli operai, all’interno della classe dei capitalisti.

Ad un attento esame si rivela che la massa complessiva del plusvalore prodotto nei tre settori (pari a 120) si ripartisce negli stessi, in modo proporzionale alla grandezza dei capitali anticipati senza alcun interesse apparentemente per la composizione di questi capitali. Il profitto di ogni settore singolarmente preso sembra non dipendere più dal plusvalore prodotto dalla forza lavoro, ma dal capitale complessivo (C+V) del settore. Questo fenomeno si riflette nella coscienza del capitalista e dei suoi apologeti in maniera capovolta, così essi si danno un gran da fare per dimostrare che il profitto non sorge dallo sfruttamento della classe operaia, ma dalla produttività delle diverse componenti del capitale complessivo (capitale variabile e capitale costante), cosicché lo stesso profitto non è più un furto ai danni degli operai, ma una giusta remunerazione, derivante dalla partecipazione del capitalista con i propri capitali e sacrifici nel processo produttivo. Insomma, lo schema proposto da Marx a tre settori sembra essere in contraddizione con tutto l’edificio della legge del valore dei primi due volumi de Il Capitale. Ma lo è solo in apparenza. Basta infatti esaminare lo schema a tre settori nella sua globalità per rendersi conto che il capitale complessivo realizza e si suddivide una massa di plusvalore che ha come unica fonte la classe operaia totale. Il profitto settoriale non coincide in due casi con il plusvalore a livello settoriale, ma il profitto totale coincide con il plusvalore totale e i valori totali coincidono con i prezzi di produzione totali. Le forme fenomeniche (profitto e prezzi di produzione) sono in contraddizione con i loro contenuti reali (plusvalore e valore), se consideriamo il sistema in una sua parte, nella sua parzialità, ma non lo sono più se osserviamo il sistema nella sua totalità, come un tutto.

«Dunque – scrive Marx – poiché il valore complessivo delle merci regola il plusvalore complessivo e questo a sua volta la grandezza del profitto medio e per conseguenza del saggio generale del profitto, come legge generale e come legge che domina le oscillazioni è la legge del valore che determina i prezzi di produzione». (19)

Qualsiasi teoria che pretende di sganciare il calcolo dei prezzi dalla legge del valore non ha alcun fondamento di verità. «La società – scrive Trotsky – ha a disposizione solo ciò che è stato creato dal lavoro umano ed ogni calcolo, ogni sistema dei prezzi non potrà mai rompere questa limitazione». (20)

Si può obiettare che la legge della trasformazione dei valori in prezzi contenga degli errori di impostazione o di metodo o di calcolo. Tutta una vasta letteratura si è sviluppata su questo problema (da Borckievik fino a Sraffa) e non sono mancati coloro i quali, sulla base di errori più o meno gravi compiuti da Marx nel calcolo dei prezzi, sono arrivati a rigettare la stessa legge del valore-lavoro che sorregge l’intero edificio della costruzione teorica marxista. Non rientra nei limiti del presente documento approfondire tale questione. Vogliamo però ribadire e sottolineare con forza che l’essenza della scienza economica marxista non risiede nel calcolo dei prezzi, ma nella teoria del valore-lavoro e del plusvalore. Qualsivoglia errore matematico possa aver compiuto Marx nel calcolo dei prezzi, esso non inficia minimamente l’essenza rivoluzionaria della sua teoria. Stabilito che solo il lavoro umano (certo anche la natura!) è fonte della ricchezza e dei valori, il problema dei prezzi potrà riguardare solo piccole interferenze che si creano nella distribuzione del prodotto sociale, ma non la sua origine né i rapporti sociali da cui scaturisce e neanche i fondamenti generali che regolano la sua distribuzione tra le classi.




LA LEGGE DEL VALORE E LA CRISI



Nel modo di produzione capitalistico, la distribuzione del lavoro e dei capitali tra le differenti branche produttive non è stabilita in base ad un piano, che tenga conto della realizzazione dei bisogni sociali. È la realizzazione del massimo profitto che determina la direzione dei flussi di investimento dei capitali. La legge del valore, a posteriori, ne disciplina il decorso.

Che cosa può voler dire la caduta dei prezzi delle merci in periodi di crisi economica? Significa che il mercato, a posteriori, ha stabilito che una buona parte del lavoro impiegato per la produzione di quelle merci non è remunerato, o meglio è stato sperperato dal punto di vista sociale, non costituisce cioè lavoro socialmente necessario.

Affinché si ristabilisca l’equilibrio (e la crisi serve proprio a questo), una parte dei capitali dovrà ritirarsi dalla produzione di quelle merci per orientarsi in altre sfere o rimanere nello stesso settore, diventando più produttiva.

È la legge del valore che impone i confini entro i quali può svolgersi in modo produttivo l’accumulazione del capitale. Essa, al contrario di quanto avviene nei sistemi a pianificazione centralizzata, svolge questa sua azione, a posteriori, al prezzo di continue crisi e di uno spreco costante di risorse sociali.

«Il senso della società borghese – sostiene Marx – consiste appunto in questo, che a priori non ha luogo nessun cosciente disciplinamento della produzione sociale. Ciò che è razionale e necessario, per la sua stessa natura si impone soltanto come una media che agisce ciecamente». (21)

Supponiamo una situazione in cui un’impresa, operante in un regime di capitalismo puro o di libera concorrenza, introduca delle innovazioni, aumentando la propria produttività al di sopra di quella del settore. Questa impresa realizzerà ora degli extraprofitti, grazie al fatto che è riuscita ad infrangere la legge del valore del settore.

Le altre imprese per mantenere la propria quota di mercato, o per non essere fatte fuori, saranno costrette a seguire la stessa strada. L’innovazione quindi si generalizza e il valore sociale medio dei beni prodotti nel settore scenderà al valore individuale della prima impresa innovatrice. Si avrà come risultato finale una caduta del saggio di profitto del settore, in conseguenza del fatto che la legge del valore si è imposta ad un nuovo livello e alle spalle di ogni singolo capitale.

La crisi che ne vien fuori evidenzia la discrepanza tra produzione materiale e produzione di valore e il suo approssimarsi si annuncia con una diminuzione del saggio di investimento.

Una quota maggiore di valori d’uso in forma di mezzi di produzione e di beni di consumo rappresenta una quota minore di valori di scambio; una stessa quota di capitale rappresenta un minore saggio di profitto o, il che è lo stesso, una minore creazione di valore.




LA LEGGE DEL VALORE NEL CAPITALISMO MONOPOLISTICO DI STATO


Scrive Marx: «Perché i prezzi ai quali le merci si scambiano reciprocamente corrispondano approssimativamente ai loro valori sono necessarie alcune condizioni, tra cui quella che non esista alcun monopolio di vendita, nessun monopolio naturale o artificiale che permetta ad una delle parti contraenti di vendere le proprie merci al di sopra del valore o le costringa a disfarsene al di sotto del valore». (22) Come si vede Marx aveva già a suo tempo intuito che l’instaurarsi di forme di mercato monopolistiche avrebbe inevitabilmente creato perturbazioni nel modo di imporsi della legge del valore. E a ragione. Oggi, le grandi concentrazioni monopolistiche, in virtù della loro potente forza di mercato sono in grado di frenare (deliberatamente) l’aumento dell’offerta di produzione e di fissare i prezzi molto al di sopra dei valori e dei prezzi di produzione.

Si realizzano in tal modo i prezzi di monopolio che assicurano al capitale monopolistico enormi sovrapprofitti ed un saggio di profitto più elevato rispetto al saggio medio. Ma che cosa rappresentano questi extraprofitti? Giacché derivano da un differenziale tra prezzi di mercato monopolistici e valore, non corrispondono di certo a ricchezza creata direttamente nel processo produttivo. Gli extraprofitti rappresentano invece valore, ricchezza stornata nella sfera della circolazione da settori non monopolistici, dai consumatori e dai paesi semi-coloniali che vengono costretti ad uno scambio ineguale. I consumatori dei paesi imperialisti, ma soprattutto quelli dei paesi semi-coloniali, vengono sottoposti alle continue vessazioni degli aumenti dei prezzi, e cioè dell’inflazione che ha come causa fondamentale la struttura monopolistica ed oligopolistica della produzione e del mercato. Per rendersi conto di questo fatto, basta del resto osservare la crescita continua dei prezzi in questo secolo, a fronte del loro livellamento nel secolo scorso.

Quando affermiamo che il capitale monopolistico impone dei prezzi di mercato superiori ai prezzi di produzione, nonché ai valori, non vuol dire che la legge del valore abbia cessato di operare o che il profitto derivante dalla circolazione abbia sostituito il profitto derivante dal plusvalore estorto all’operaio; vuol dire semplicemente che il profitto della circolazione o l’extraprofitto monopolistico si aggiunge al profitto derivante dallo sfruttamento della forza-lavoro nel ciclo produttivo e che inoltre il profitto derivante dalla circolazione non è grazia divina, ma pur sempre un’aliquota di plusvalore creato dagli operai in altre sfere produttive o in altre nazioni e, a seconda dei casi, parte dello stesso salario della classe operaia.

Il risultato è che i prezzi di monopolio servono ad accrescere lo sfruttamento della classe operaia ed a mantenere la crescita dei salari reali costantemente al di sotto della produttività e del valore reale della forza-lavoro (la stessa funzione ha l’esercito industriale di riserva). Non è quindi il salario il determinante dell’inflazione, come predicano gli apologeti borghesi, ma è l’inflazione che serve a mantenere bassi i salari e ad aumentare i profitti.




LA LEGGE DEL VALORE SU SCALA MONDIALE


Una delle ipotesi astratte dell’analisi marxista è che la legge del valore operi nel quadro di un singolo spazio nazionale (Inghilterra, Francia, Stati Uniti ecc.). Se questa ipotesi si è dimostrata abbastanza corretta nella realtà del capitalismo del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, non lo è più in quella del Ventesimo secolo, secolo dell’imperialismo, della concentrazione, della internazionalizzazione e dell’integrazione del capitale su scala mondiale. Le merci tendono a divenire sempre più merci mondiali e ciò non solo per la loro destinazione sui mercati, ma anche per l’internazionalizzazione delle fonti di produzione delle materie prime e dei mezzi di produzione che servono a realizzarle.

Già ai tempi di Marx, per alcuni importanti articoli di commercio, il valore era determinato su base mondiale. Scrive Marx: «la misura del valore ad esempio del cotone, è determinata non dall’ora di lavoro Inglese ma dal tempo di lavoro necessario in media sul mercato mondiale». (23)

Oggi, i valori mondiali esercitano una preminenza sui valori nazionali. Ciò riflette nient’altro che il livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive e dalla divisione mondiale del lavoro.

La preminenza dei valori mondiali è la manifestazione principale dell’unità del sistema capitalistico mondiale, delle forze economiche che tengono insieme le differenti strutture nazionali. Unità del sistema mondiale non vuol dire tuttavia omogeneità: la struttura mondiale del capitalismo è una struttura piramidale di dominio di un pugno di nazioni capitaliste sviluppate, in permanente conflitto di interessi, sul resto delle nazioni capitaliste sottosviluppate. Lo sviluppo dei paesi capitalistici non è solo ineguale, ma anche antagonistico. Il cosiddetto sviluppo dei pesi che si situano ai vertici della piramide si fonda sul sottosviluppo, la fame e la miseria della base, che comprende i due terzi della popolazione mondiale.

La legge dei valori mondiali 1) assicura la riproduzione e la perpetuazione del comando delle nazioni imperialistiche sul resto del mondo; 2) la riproduzione del sistema dei posti occupati dalle nazioni nell’ambito della divisione mondiale del lavoro; 3) determina le condizioni di scambio tra nazioni capitaliste (nel caso lo scambio avvenga tra nazioni a differente stadio di sviluppo, esso è di tipo ineguale. Attraverso lo scambio ineguale, enormi masse di plusvalore vengono quotidianamente drenate dai paesi sottosviluppati ai paesi sviluppati); 4) determina un valore mondiale medio della forza-lavoro (come giustamente fa notare Samir Amin, il prezzo della forza-lavoro nei centri imperialisti non è indipendente da quello vigente nella periferia dominata, perché il prezzo medio della forza-lavoro mondiale deve corrispondere al suo valore); 5) determina il ritmo di sviluppo e di crisi del capitale; 6) costringe i paesi cosiddetti socialisti ad un confronto permanente con il capitale internazionale, che ha avuto come risultato lo stesso crollo dei regimi stalinisti.

Relativamente al punto uno e tre, già Karl Marx ebbe modo di osservare che, a causa dell’ineguale sviluppo delle forze produttive tra differenti paesi, «tre giornate lavorative del paese più sviluppato possono scambiarsi con una giornata del paese sottosviluppato. La legge del valore – prosegue Marx – subisce qui una modificazione essenziale. Ovvero le giornate lavorative di paesi differenti possono stare tra di loro, come all’interno di un paese il lavoro qualificato, il lavoro complicato sta al lavoro non qualificato semplice. In questo caso, il paese ricco sfrutta quello più povero, anche se quest’ultimo con lo scambio guadagna, come ha spiegato anche Mill». (24) Vi è in queste righe uno dei contributi più interessanti portati da Marx alla teoria del commercio internazionale. Lo scambio internazionale da un lato compie l’impresa di soddisfare ognuna delle parti che scambiano, con un consumo accresciuto di valori d’uso (legge dei costi comparati), ma dall’altro produce lo sfruttamento del paese meno sviluppato attraverso lo scambio ineguale dei valori. Il paese A meno sviluppato, per importare valori d’uso che non può produrre nei propri confini nazionali, fornisce in cambio più lavoro di quanto essi ne contengano.

Questa diseguaglianza negli scambi, che si traduce in un trasferimento di plusvalore a vantaggio del paese più sviluppato, ha due spiegazioni fondamentali (entrambe conducono alla seguente conclusione: presupposti dei valori mondiali delle merci i prodotti offerti dai paesi sviluppati traggono dallo scambio un valore superiore al valore medio internazionale, e i paesi sottosviluppati un valore inferiore al valore medio internazionale. Ciò che l’uno perde l’altro guadagna);

1) L’una fa derivare il trasferimento di plusvalore dalla differente composizione organica dei capitali tra i paesi che effettuano lo scambio. La perequazione del saggio di profitto su scala mondiale determina un trasferimento di plusvalore dai paesi con una minore composizione organica dei capitali ai paesi con una maggiore composizione organica. Se al posto dei settori poniamo paesi differenti, ci troviamo di fronte allo stesso caso analizzato nel paragrafo “valori e prezzi”.

2) L’altra fa derivare il trasferimento di plusvalore dall’esistenza di differenti saggi di plusvalore tra paesi che scambiano e che hanno la stessa produttività del lavoro. È la relativa immobilità del fattore lavoro su scala mondiale che determina in prima istanza differenziali nei salari reali, nonché quindi nei saggi di plusvalore e nella composizione organica in valore dei capitali. Per agevolare la comprensione di questo secondo caso, usiamo il solito schema e supponiamo di avere due paesi a differenti composizioni organiche e saggi di plusvalore che iniziano uno scambio. Supponiamo inoltre che i due paesi si scambino grano con patate ed abbiano pari livello di sviluppo della produttività del lavoro:







C V PL valore prof. PdP G e P




A 10 2 18 30 14 26 - 4




B 10 10 10 30 14 34 + 4




PdP = prezzo di produzione, G e P = profitti e perdite




Ciò che cambia, come si vede, è il saggio di plusvalore che nel primo caso è 18/2 = 900% e nell’altro 10/10 = 100%. Essendo le produttività uguali, un’ora di lavoro A produce la stessa quantità di valore di un’ora di lavoro B. La perequazione del saggio di profitto tuttavia (entrambi i paesi realizzano 14 sul mercato mondiale e non può essere altrimenti, dice Marx, senza abolire il sistema capitalistico) genera uno scambio ineguale, conduce cioè ad un trasferimento di valore, o meglio di plusvalore dal paese con bassi salari reali al paese con salari più elevati.

Il secondo caso ora analizzato è quello che meglio rappresenta le condizioni reali di scambio tra i paesi del cosiddetto Terzo Mondo e i paesi imperialisti avanzati. Infatti, le esportazioni dei paesi semicoloniali sono costituite in gran parte da prodotti provenienti da settori tecnologicamente avanzati.

I salari di fame dei tre quarti della popolazione mondiale, oltre ad essere principio di fame, miseria e malnutrizione, oltre ad essere motivo di ingenti extraprofitti per le multinazionali che investono direttamente in Asia, in Africa ed in America Latina, permettono una rapina immensa di ricchezze e risorse attraverso il meccanismo nascosto dello scambio ineguale.

Se la massa dei prodotti forniti dai paesi dipendenti fosse creata direttamente nelle metropoli imperialistiche, il suo valore reale sarebbe di molte volte superiore a quello che oggi i paesi dipendenti sono costretti a realizzare sul mercato mondiale. Noi oggi possiamo affermare che la differenza tra il valore che la massa dei prodotti del Terzo Mondo avrebbe se fosse creata nei paesi imperialisti e il suo valore effettivamente realizzato, corrisponde al trasferimento reale di valore dalla periferia verso il centro del sistema capitalistico mondiale.

È proprio questa grande ingiustizia che permette ancora alle popolazioni delle metropoli imperialiste di vivere in un relativo benessere. Se solo dovessimo pagare il petrolio al suo vero valore, penso che molta meno gente oggi potrebbe permettersi il lusso di avere una prima ed una seconda macchina.




LAVORO PRODUTTIVO E LAVORO IMPRODUTTIVO


Sulle relazioni concettuali tra la legge del valore e le categorie di lavoro produttivo e lavoro improduttivo nessun teorico marxista ha fatto mai riferimento in modo approfondito. E ciò è ingiustificabile, perché la legge del valore è in stretta dipendenza con la natura e il contenuto specifico del lavoro.

Per Marx il valore annuale complessivo prodotto in un certo paese può essere suddiviso in tre componenti fondamentali: Capitale Costante, Capitale Variabile e Plusvalore. In altre parole, il valore complessivo prodotto deve remunerare i fattori della produzione (mezzi di produzione, materie prime ecc.), la forza-lavoro e tutte le classi dominanti che sotto diverse forme (rendita, interessi, profitti, imposte, stipendi ecc.) si appropriano di una quota del plusvalore complessivo creato dalla classe operaia.

Delle tre componenti del valore solo due, e nella fattispecie capitale variabile e plusvalore, rappresentano il surplus (o, in termini tecnici, valore aggiunto) che volta per volta il proletariato produce e aggiunge come ricchezza alla ricchezza già presente in un paese. Ma tutti i lavoratori dipendenti hanno la capacità di creare ex-novo questo surplus? No. Tale capacità ce l’hanno solo i lavoratori produttivi e non quelli improduttivi.

Se consideriamo il lavoro produttivo come lavoro che si cambia con capitale e produce plusvalore e il lavoro improduttivo come lavoro che si scambia solo con reddito e non produce plusvalore, dobbiamo concludere che numerose attività, come ad esempio quelle che forniscono merci e servizi creati con il lavoro del singolo produttore, proprietario dei mezzi di produzione, non sono produttive, non creano plusvalore. Mi riferisco ai lavori del piccolo artigiano e contadino, del dentista, dell’avvocato e numerosi altri che si scambiano con reddito e non con il capitale. Gli stessi operai della pubblica amministrazione (scopini, elettricisti ecc.), gli insegnanti statali, nella misura in cui sono pagati con le imposte dei cittadini (e non forniscono plusvalore) nella misura in cui scambiano il proprio lavoro con il reddito e non con il capitale, svolgono attività improduttive dal punto di vista del sistema capitalistico.

In ultima istanza, tutte queste attività si possono definire improduttive, perché sono esterne al modo di produzione capitalistico.

Nondimeno, esistono attività improduttive endogene al modo di produzione capitalistico che crescono in misura direttamente proporzionale al crescere delle difficoltà di valorizzazione del capitale nella fase monopolistica. Sono le attività che fanno capo al commercio, alla pubblicità, al marketing, alle banche, alle assicurazioni, che non creano plusvalore ma, viste su scala complessiva, si limitano a trasferire quote di plusvalore da un proprietario all’altro o da un capitale all’altro. Sono pertanto attività improduttive e i lavoratori che in esse operano sono lavoratori improduttivi, nonostante, beninteso, permettano ai capitali, ivi messi in movimento, di appropriarsi di plusvalore. Dunque, il lavoro produttivo è lavoro che si scambia con capitale produttivo, lavoro che assicura la creazione di plusvalore ex novo e non semplicemente il drenaggio di questo da un settore all’altro del sistema economico.

Appare chiaro, quindi, che una parte notevole del lavoro sussunto sotto il modo di produzione capitalistico, benché indispensabile alla sua riproduzione, non crea valore. Esso fa parte semplicemente dei Faux freis della produzione capitalistica e rappresenta semplice spreco di energia lavorativa e di risorse dal punto di vista di un modo di produzione ordinato razionalmente su basi nuove e secondo i bisogni sociali.




TEMPO E VALORE NELL’EPOCA DELL’AUTOMAZIONE


La tendenza generale ed immanente della produzione capitalistica è di aumentare incessantemente la forza produttiva del lavoro sociale, costringendo il lavoro vivo a sorvegliare, regolare e controllare quote sempre crescenti di lavoro morto (capitale fisso, materie prime ecc.).

Con lo straordinario impulso dato alla scienza e alla tecnica, la produzione materiale viene sempre meno a dipendere dal lavoro del singolo individuo e sempre più dal lavoro socialmente combinato, sì che la stessa funzione del capitalista, come agente della produzione, perde il significato di un tempo e con esso la precedente legittimazione sociale.

Le macchine, vale a dire il capitale nella forma oggettivata, recitano la parte dei protagonisti della produzione capitalista assorbendo le capacità lavorative e l’esperienza del lavoro vivo «come se avessero amore in corpo», e relegando, per ciò stesso, gli operai ai margini del processo produttivo. Nelle fabbriche più moderne, usando le parole di Marx, «il lavoro vivo in forma immediata (il lavoro della classe operaia) scompare come principio determinante della creazione di valori d’uso, e sul piano qualitativo è posto come momento, certo indispensabile, ma subalterno rispetto al lavoro scientifico generale, all’applicazione tecnologica delle scienze naturali da un lato e rispetto alla forza produttiva generale risultante dall’articolazione sociale della produzione complessiva dall’altro. Il capitale opera quindi nel senso della propria dissoluzione come forma che domina la produzione». (25)

Osservando inoltre il processo di produzione dal punto di vista del tempo di lavoro, appare chiaro che in tempi sempre più ristretti viene creata una massa di valori d’uso crescente, sì che in apparenza sembra che la produzione di merci e il computo del suo relativo valore sia svincolata dal calcolo del tempo di lavoro.

Ingannati da questa falsa apparenza, alcuni pseudo-marxisti volgari si sono spinti fino a decretare l’estinzione della legge del valore (la legge che determina il valore delle merci in base al tempo di lavoro) nell’epoca dell’automazione dei processi produttivi; e lo hanno fatto in forza dello stesso Marx, il quale, nel noto Frammento sulle Macchine, scrive:

«lo scambio di lavoro vivo con lavoro materializzato è l’ultimo sviluppo, ossia la posizione del lavoro sociale nella forma di antitesi tra capitale e lavoro salariato è l’ultimo sviluppo del rapporto di valore e della produzione basata sul valore. La sua premessa è e rimane la massa di tempo di lavoro immediato, la quantità di tempo di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza. Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro, la quale a sua volta – questa loro poderosa efficacia – non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dalla applicazione di questa scienza alla produzione (…) La ricchezza reale si manifesta piuttosto – e ciò viene messo in luce dalla grande industria – nella straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto a pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso sorveglia». (26)

Bene, chi, in forza della potenza del pensiero tradotta in queste affermazioni, si è affrettato a proclamare l’estinzione della legge del valore (e quindi il tramonto definitivo de Il Capitale e del marxismo) nel più moderno sistema di fabbrica, ha compiuto suo malgrado una violenza ripugnante alle vere intenzioni scientifiche dell’autore dei Grundrisse. Usando quelle espressioni, Marx spiega l’approssimarsi del rovesciamento dialettico del capitale, l’ontologia della trasformazione socialista. In parole più semplici, egli vuole gettare una luce chiarificatrice sulla contraddizione epocale che scuote il modo di produzione capitalistico, il quale continua ad assumere come suo fondamento assoluto la produzione di valore basata sul tempo di lavoro, meglio ancora la produzione di plusvalore fondata sull’estorsione del tempo di lavoro altrui, benché lo straordinario sviluppo delle potenze tecnologiche della produzione abbiano reso ormai antistorico, miserabile questo fondamento.

Del resto, il titolo stesso del frammento da cui sono tratte quelle affermazioni sgombra il terreno da ogni possibile equivoco: «Contraddizione tra il fondamento della produzione borghese (misura del valore) e il suo stesso sviluppo (macchine ecc.)».

Ad ogni modo Marx, alcune righe più avanti, chiarisce ancora meglio il suo concetto, quasi presentisse di essere malinteso da qualche suo detrattore:

«il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che esso interviene come elemento perturbatore nel processo di riduzione del tempo di lavoro ad un minimo, mentre d’altro canto pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce quindi il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, solo per aumentarlo nella forma del tempo di lavoro superfluo come condizione di vita o di morte di quello necessario. Per un verso chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura come della combinazione sociale, allo scopo di rendere indipendente relativamente la creazione della ricchezza dal tempo di lavoro in essa impiegato. Per l’altro verso vuol misurare con il tempo di lavoro le gigantesche forze sociali così create e relegarle nei limiti che sono richiesti per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali – entrambi aspetti diversi dello sviluppo dell’individuo sociale – al capitale si presentano come mezzi e per esso sono soltanto mezzi per produrre a partire dalla sua base limitata. Ma in realtà sono le condizioni materiali per far saltare in aria questa base». (27)

Concludendo: fin quando permarranno i rapporti di produzione capitalistici, rimarrà la produzione finalizzata al profitto, alla valorizzazione del capitale e quindi, sebbene le condizioni oggettive siano mature per la cessazione, estinzione di questi rapporti, il tempo di lavoro continuerà ad essere misura di ogni ricchezza ed il valore di scambio misura di ogni valore d’uso. Per quanto il capitale, nei limiti della sua natura, possa aumentare la produttività del lavoro, il tempo continuerà ad essere misura di quelle grandezze. Le più moderne immolazioni tecnologiche sono lì ad indicare e riconfermare che il capitale possiede come principio guida non un fine sociale, ma l’economia di tempo. Il suo scopo è quello di ridurre il tempo in cui la classe operaia lavora per sé ed allungare il tempo in cui lavora per il capitale. Anche negli stabilimenti più moderni ed automatizzati non c’è sollievo per gli operai. Essi continuano a rappresentare per il capitale tempo di lavoro personificato. La determinazione rigida ed autoritaria dei tempi di lavoro, il calcolo infinitesimale di ogni movimento dell’operaio nell’organizzazione del lavoro tayloristica e post-tayloristica testimoniano che il calcolo del valore in base al tempo di lavoro, l’economia di tempo costituisce per il capitale una questione di vita o di morte.

Per avere una prova di quanto andiamo dicendo, riportiamo alcuni estratti delle recenti trattative Alfa Lancia. Gli attori capitalisti della trattativa hanno voluto chiamare l’allegato n° 2 «La metrica del lavoro». In essa il comando del capitale sul lavoro viene riproposto in modo così scientifico che avrebbe fatto rizzare i capelli allo stesso Taylor. Lo scopo della metrica è quello di determinare il tempo necessario alla esecuzione di un determinato lavoro. All’operaio bloccato nella sua postazione viene affidata l’estrema ripetitività del suo lavoro (ci sono operazioni che non durano più di un minuto e che devono essere svolte durante l’intera giornata). Al personale tecnico specializzato è affidata invece la lettura sul cronometro dei tempi impiegati dal lavoratore nei singoli elementi dell’operazione. Poi c’è la formulazione matematica che stabilisce senza possibilità di errore il tempo effettivo che sarà uguale al tempo rilevato moltiplicato per la velocità rilevata. Con l’applicazione di opportune maggiorazioni, si ricava il tempo base per sommatoria dei valori elementari standard. Il metodo scelto si chiama TMC (Tempi dei movimenti collegati) e consente di definire tramite l’analisi dei movimenti dell’operaio (metodo di esecuzione) l’impegno della manodopera tenendo conto delle particolari condizioni in cui si svolge ogni singolo lavoro. Per intensificare lo sfruttamento dell’operaio, si è fatto uno studio particolareggiato delle sue condizioni fisiologiche, del suo affaticamento, del suo dispendio di energie e dei suoi movimenti. Vale la pena di citare la parte del documento che riguarda l’energia consumata dalla forza-lavoro: «Dispendio energetico richiesto al prestatore di lavoro, che è funzione del numero dei movimenti compiuti nell’unità di tempo, del peso mosso ad ogni movimento e del peso mantenuto fermo. Si tiene conto del numero dei movimenti eseguiti nell’unità di tempo e dell’intensità della prestazione, nel rapporto che collega in modo inversamente proporzionale la velocità di spostamento e l’entità dei pesi, con i relativi effetti sulle pause tra movimenti successivi» (allegato tecnico n° 2 delle trattative Alfa Lancia).

Insomma, tutto calcolato al millesimo! Altro che estinzione della legge del valore! Sempre più attuali si confermano le idee che Marx annunciava più di un secolo fa: «Nelle condizioni capitalistiche il tempo è tutto, l’uomo non è più niente, è tutt’al più l’incarnazione del tempo» (Miseria della filosofia). E ancora ne Il Capitale «Il capitale nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è necessario per consumare aria libera e luce solare».

«Atomi di tempo sono gli elementi del guadagno». E mai come oggi questo è tanto più vero! Basti pensare che le stesse prestazioni delle macchine automatiche più moderne vengono misurate oggi in Mips (milioni di istruzioni per secondo), cioè in informazioni lavorate per unità (atomi!!!) di tempo. Il fatto stesso che la misura del tempi di lavoro delle macchine sia il nano secondo e non più l’ora, che nascono modelli teorici che guardano, come le reti di Petri, a più attività concorrenti nella stessa unità di tempo, indica che uno dei caratteri principali della società dell’informazione è proprio l’intensificazione dell’uso del tempo.

Fino a che ci sarà il modo di produzione capitalistico, sarà sempre il valore di scambio il nesso che unisce individui a-sociali, e sarà sempre la legge del valore, saranno sempre i rapporti di valore (costi di produzione, salari, profitti, interessi, rendite) a determinare la condotta degli agenti della produzione. Tra tutte le componenti del valore il profitto resterà sempre l’elemento dominante, il prisma attraverso cui si realizza la legge del valore.

Nella società comunista, nella società in cui la proprietà dei mezzi di produzione è trasferita dai capitalisti alla collettività, e nella quale non il profitto, non la riproduzione del capitale, ma la riproduzione dell’individuo sociale in tutti i suoi aspetti sarà l’obiettivo dei produttori associati, la legge del valore sarà soppressa. L’elemento profitto verrà espunto dal valore e quest’ultimo, seppure continuerà a sopravvivere per tutta una fase di transizione al comunismo, si realizzerà attraverso il piano dei produttori, in modo che non dominerà più nella forma a-sociale di valore di scambio, ma nella forma sociale di valore d’uso.




L’ESTINGUERSI DELLA LEGGE DEL VALORE NEL SOCIALISMO


Nell’ormai noto Frammento sulle Macchine, Marx ci fornisce una testimonianza scritta della straordinaria potenza intellettuale del suo pensiero. Nei Frammenti il fondatore del socialismo scientifico fa ricorso a tutta la sua capacità di ragionamento per spiegare come la produzione capitalistica, basata sulla legge del valore, tenda, nel suo sviluppo, a generare contraddizioni sempre più esplosive e come queste contraddizioni rendano necessario il superamento del capitalismo ad opera di una forma di produzione superiore, più rispondente ai veri bisogni sociali dell’uomo nuovo. Ed è solo il socialismo che potrà assicurare l’estinzione di quelle categorie economiche, come la merce e il valore di scambio, che per millenni hanno tenuto soggiogato l’uomo.

Per usare le stesse parole di Marx: «il capitale è senza volerlo strumento di creazione delle possibilità di tempo sociale disponibile, strumento di riduzione del tempo di lavoro dell’intera società ad un minimo decrescente, sì da rendere il tempo di tutti libero per lo sviluppo individuale personale. Ma la tua tendenza (del capitale) è sempre da un lato quella di creare tempo disponibile, dall’altro di convertirlo in lavoro eccedente (in lavoro che l’operaio ha da svolgere gratuitamente per il capitale n.d.r.). Se la prima cosa gli riesce troppo bene esso soffre di sovrapproduzione e allora il lavoro necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare alcun lavor eccedente e il capitale non produce più non perché non esistano bisogni da soddisfare ma perché non sono soddisfatti i bisogni del capitale stesso. Quanto più si sviluppa questa contraddizione tanto più diviene chiaro che la crescita delle forze produttive non può essere vincolata all’appropriazione del lavoro eccedente altrui che invece la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo lavoro eccedente». (28)

Marx ha qui in breve evidenziato cosa significhi antagonismo tra forze produttive e rapporti di produzione ed ha indicato la strada attraverso cui risolverlo. Ma egli si spinge oltre facendo notare come mutamenti quantitativi del processo lavorativo della grande industria devono giocoforza trapassare in mutamenti qualitativi e come per questa via si giunga al superamento del modo di produzione capitalistico. Per rendere possibile un ulteriore sviluppo delle forze produttive sociali, nell’epoca della grande industria, che porta la combinazione sociale del processo lavorativo agli estremi, non è più sufficiente il produttore capace di svolgere uno specifico lavoro (il lavoro del singolo è sempre di più articolazione di un meccanismo complessivo di produzione), occorre invece «l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua essenza di corpo sociale». (29)

Noi oggi possiamo aggiungere che per allontanare lo stesso pericolo della distruzione della vita e del pianeta è più che mai necessario sottrarre il controllo delle potenze della produzione e della tecnologia dal comando individuale ed egoistico del capitale, per restituirlo allo stesso corpo sociale.

Aggiunge Marx: «occorre l’esperienza dell’operaio collettivo combinato per additare come e dove si possa economizzare, quali siano i mezzi più semplici per tradurre in realtà invenzioni già fatte, quali difficoltà occorre superare per realizzare la teoria, per farne cioè applicazione nel processo produttivo ecc.». (30) Ciò non è mai stato più vero che nel momento attuale, dove i capitalisti stessi si stanno accorgendo che l’emarginazione tayloristica dell’operaio dalle conoscenze e dal sapere produttivo è la principale fonte di inefficienze, ed invece la valorizzazione dello stesso sapere operaio (la filosofia della qualità totale) la base di ogni possibile sostegno dell’accumulazione.

Nella situazione rovesciata del comunismo, dove il controllo sociale del processo lavorativo e l’alta produttività del lavoro permetteranno alla società intera di dedicare al lavoro una porzione limitatissima della giornata lavorativa, il tempo libero e non il tempo di lavoro rappresenterà la misura universale della ricchezza e perciò stesso la legge del valore, come legge che pone il calcolo della ricchezza fondata sul tempo di lavoro cadrà definitivamente. Scrive Marx: «una volta che la massa operaia si sia appropriata del lavoro eccedente il tempo disponibile cessa di avere un’esistenza antitetica e da un lato il tempo di lavoro necessario avrà la sua misura nei bisogni dell’individuo sociale, dall’altro lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale crescerà così rapidamente che, sebbene ora la produzione sia calcolata in funzione della ricchezza di tutti. Infatti la ricchezza reale è la forza produttiva sviluppata di tutti gli individui. E allora la misura della ricchezza è data non più dal tempo di lavoro ma dal tempo disponibile. Il tempo di lavoro come misura della ricchezza, pone la ricchezza stessa come fondata sulla povertà e il tempo disponibile come tempo che esiste nella e in virtù dell’antitesi con il tempo di lavoro necessario, ovvero tutto il tempo dell’individuo è posto come tempo di lavoro e l’individuo è degradato a puro operaio sussunto sotto il lavoro». (31)

Che la legge del valore crollerà non significa beninteso che il lavoro cesserà di essere misurato tramite il tempo. Nel comunismo, dove il lavoro sociale necessario non scomparirà ma sarà ridotto ad un minimo, obbligatorio per tutti, l’economia di tempo e la ripartizione adeguata del tempo di lavoro tra i diversi rami della produzione sarà una legge posta ad un grado supremo, poiché fine della produzione sociale sarà proprio quello di liberare sempre maggior tempo disponibile per lo sviluppo dell’attività creatrice dell’individuo, al di là ed oltre il tempo di lavoro sociale necessario. Ma attenzione però, nella nuova società a differenza che nella attuale il lavoro necessario cesserà definitivamente di produrre valore. Il lavoro produrrà solo valore d’uso. La misura del lavoro non sarà più il valore di scambio ma il valore d’uso; e poiché il lavoro necessario cesserà di essere la grande fonte della ricchezza, la misura della ricchezza stessa non sarà più data dal tempo di lavoro necessario, bensì dal tempo di lavoro disponibile. Andrei oltre Marx. Aggiungerei che, siccome le creazioni del genio umano, della creatività umana non potranno essere misurate con il metro del tempo disponibile, quest’ultimo cesserà a sua volta di essere la misura della ricchezza sociale. La ricchezza sociale non potrà avere altra misura che la grandezza delle conquiste che l’umanità raggiungerà con il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà.

«Presupposta una produzione sociale – scrive Marx – rimane naturalmente essenziale la determinazione del tempo. Meno è il tempo di cui la società ha bisogno per produrre frumento, bestiame ecc., tanto più tempo essa guadagna per altre produzioni materiali o intellettuali. Come per il singolo individuo, così per la società, l’onnilateralità del suo sviluppo, delle sue fruizioni e delle sue attività dipende dal risparmio di tempo: economia di tempo, in questo si risolve in definitiva ogni economia. La società deve ripartire in maniera razionale, onde conseguire una produzione adeguata ai suoi bisogni complessivi, così come l’individuo singolo deve ripartire giustamente il proprio tempo onde procurarsi conoscenza in proporzione adeguata a soddisfare le diverse esigenze della sua attività. Economia di tempo e ripartizione adeguata del tempo di lavorot tra i diversi rami della produzione: questa rimane la prima legge economica sulla base della produzione collettiva. Anzi diverrà legge in grado molto superiore. Ma si tratta di cosa ben diversa dalla misurazione dei valori di scambio (lavori o prodotti del lavoro) mediante il tempo di lavoro». (32)

Il valore di scambio è la forma di mediazione sociale dei produttori e dei consumatori dominante nella produzione mercantile e capitalistica all’interno della quale essi sono posti una rispetto all’altro come entità indipendenti ed indifferenti. Il valore di scambio, come forma di mediazione sociale, ha una ragione di esistenza in un modo di produzione storicamente determinato nel quale i produttori sono separati dalle condizioni della produzione e queste sono sussunte sotto il dominio di capitali reciprocamente indifferenti. Cessando il modo di produzione capitalistico, cessa anche la sua specifica forma di mediazione sociale.

Nella comunità dei produttori associati, fondata sulla proprietà comune del suolo e dei mezzi di produzione, gli uomini non scambieranno più i loro prodotti e non avranno alcun bisogno di assegnare loro dei valori, poiché la produzione e la ripartizione direttamente sociale dei beni escluderà ogni loro trasformazione in merci. Allo stesso modo, oggi, tra due differenti reparti di una stessa azienda non si verifica uno scambio di merci, ma una ripartizione del lavoro pianificata razionalmente dalla direzione aziendale. Il reparto saldatura della Fiat cede il prodotto non ancora finito al reparto verniciatura, ma non lo scambia, non lo vende ad esso.

Il valore è la forma che assumono i prodotti e gli uomini in un sistema sociale in cui è negata ogni cosciente regolamentazione della produzione e della distribuzione. «Niente può essere dunque più falso ed insulso che presupporre sulla base del valore di scambio il controllo degli individui associati sulla loro produzione globale (…). La forma del valore porta segnato in fronte la sua appartenenza ad una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e gli uomini non padroneggiano ancora il processo produttivo». (33)

Engels aggiunge: «La valutazione dell’effetto utile e dell’erogazione del lavoro nelle decisioni concernenti la produzione a tutto ciò che in una società comunista rimane del concetto di valore dell’economia politica». (34) Secondo Marx, «nella società comunista futura, ove fosse cessato l’antagonismo di classe, ove non esistano più classi, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione, ma il tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale». (35)

Non dobbiamo infine dimenticare che le vere cause dell’esistenza del valore di scambio vanno ricercate nella scarsità e nella penuria di beni di produzione e di consumo che ha caratterizzato la civiltà umana fino ad oggi. Sinché la società ha una quantità di mezzi e di beni limitata da mettere a disposizione degli individui, il valore di scambio e il denaro che ne rappresenta la misura universale resteranno sempre gli strumenti più efficaci per effettuare la distribuzione del prodotto sociale, e il furto del tempo di lavoro altrui la base miserabile su cui continuerà a reggersi l’organismo sociale. Al contrario, nella società comunista futura, grazie al regno di abbondanza dei beni, reso possibile dall’elevato sviluppo delle forze produttive, il valore di scambio e il furto del tempo di lavoro altrui perderanno la loro ragione materiale di esistenza. Per usare una brillante analogia di Trotsky, «come non avrebbe senso che i convittori di una pensione per bene, dalla tavola riccamente imbandita, si privassero a vicenda di porzioni di burro, pane e zucchero o si vendessero l’un l’altro porzioni di cibo, così apparirà sciocco ed economicamente insensato, nella società nuova, il furto di tempo di lavoro altrui, lo sfruttamento dell’uomo ad opera dell’uomo e lo scambio di valori d’uso». (36)

Il sistema capitalistico è ad un tempo strumento per la realizzazione di un regime di abbondanza di valori d’uso (e per questo getta le premesse per la propria dissoluzione) e nell’altro causa principale della penuria di valori di scambio, per la maggioranza della popolazione terrestre. Questa contraddizione, che deriva proprio dalla separazione della maggioranza della popolazione da ogni forma di controllo e di possesso delle condizioni materiali di produzione, avrà termine solo quando le forze produttive saranno ricondotte sotto il controllo della comunità dei produttori associati.



LA LEGGE DEL VALORE NELLA FASE DI TRANSIZIONE AL SOCIALISMO


Solo nel caso altamente improbabile in cui i produttori diretti riuscissero a socializzare tutti i mezzi di produzione immediatamente dopo la conquista del potere, allora e solo allora il valore di scambio scomparirebbe e con esso tutte le residue categorie mercantili. L’esperienza storica ha mostrato tuttavia che la rivoluzione socializza, o meglio inizia a socializzare i mezzi di produzione, a partire da quelli decisivi, dovendo lasciare all’iniziativa privata e cooperativa l’usufrutto di una determinata frazione di questi mezzi (frazione la cui grandezza dipenderà dal livello di sviluppo delle forze produttive lasciato in eredità dal capitalismo). È implicito che i prodotti che verranno creati da soggetti economici indipendenti assumeranno la forma di merci nella misura in cui verranno creati per essere immessi sul mercato o più precisamente in ciò che rimarrà del mercato.

Ciò conduce ad una coesistenza (la cui durata non si può stabilire in anticipo) tra piano e mercato, una coabitazione di tipo antagonistico, dove il piano tenderà gradualmente a soggiogare il mercato e le categorie mercantili.

Per tutta una fase di transizione la legge del valore quindi continuerà a regolare i rapporti e gli scambi tra i differenti modi di produzione (piccola produzione mercantile, cooperazione, settore pianificato). La legge del valore continuerà ad operare, seppur sotto il controllo del piano, anche in quei settori socializzati che produrranno per il mercato (i cui prodotti verranno per esempio creati dal settore statale per il mercato mondiale o da esso importati).

Bisogna fare a questo punto una importante precisazione. Ciò che definisce una determinata formazione sociale è sempre il suo modo di produzione dominante. La formazione sociale di transizione al socialismo avrà anche essa un suo modo di produzione dominante che non può che essere quello statale pianificato, prima ancora che esso si estingua per cedere il passo ad un modo di produzione pianificato ma integralmente socializzato. Nel quadro di questa formazione sociale di transizione, la legge del valore non sarà più la legge economica dominante e il suo funzionamento verrà sottomesso agli obiettivi del piano e a finalità sociali. Non solo il settore pianificato non produrrà più per il valore di scambio ma per il valore d’uso, non solo l’equilibrio economico generale non sarà più dettato a posteriori dalle cieche leggi di mercato ed inizierà ad essere coscientemente realizzato a priori attraverso il calcolo economico pianificato, ma gli stessi rapporti tra il modo di produzione dominante e gli altri modi di produzione mercantili saranno sì regolati dalla legge del valore, ma in un modo tale che il valore di scambio non eserciti più un dominio diretto ed assoluto e sia il piano invece a dettare gli scopi ed il ritmo della produzione mercantile e cooperativa, in modo tale che essa abbia sempre di più una funzione sociale (attraverso commissioni statali, politica dei prezzi, sovvenzioni agevolate, crediti ecc.).

Il completo superamento della legge del valore dipenderà dalla maturazione delle seguenti circostanze: 1) la rivoluzione socialista nei principali paesi industrializzati; 2) elevato sviluppo delle forze produttive, combinazione, unità, integrazione dei diversi settori economici; 3) l’integrale socializzazione della produzione e degli scambi; 4) il superamento degli steccati tra lavoro manuale ed intellettuale.

SULLA MERCE – Da quanto detto risulta evidente che una parte considerevole dei prodotti – quelli non sottoposti in ultima analisi alle transazioni tra settori appartenenti allo Stato – compresi invece i beni di consumo sociali, continueranno a possedere la forma di merce per tutto un periodo della fase di transizione al comunismo. I prodotti del lavoro perderanno la loro forma di merce, cioè diventeranno puri e semplici valori d’uso, solo quando la società sarà in grado di determinare tutta la produzione sociale a priori, sulla base di un piano economico integrale, allo scopo di soddisfare i bisogni dell’individuo sociale. Il campo dove subito dopo la rivoluzione viene operata la metamorfosi socialista delle merci in prodotti è quello, assolutamente determinante, dei mezzi di produzione scambiati all’interno del settore pianificato.

I prodotti che continueranno, nella fase di transizione, a conservare la forma di merce non avranno più un contenuto capitalistico, nella misura in cui non saranno più capitale valorizzato attraverso l’estorsione di tempo di lavoro altrui. La merce non contiene più plusvalore. È una categoria in via di dissolvimento, che del sistema capitalistico perde il contenuto, pur conservandone ancora la forma.

SUI PREZZI – Laddove in una società di transizione sopravviverà un’economia di tipo mercantile, anche i prezzi continueranno a prolungare la loro esistenza, seppur, in un certo senso, manipolati e limitati dal piano. Solo per quanto riguarda i beni di produzione creati dallo Stato i prezzi perderanno decisamente il loro contenuto capitalista, poiché, seppur condizionati dalla legge del valore, essi sono stabiliti in anticipo dal piano e non sono vittime di alcun gioco delle forze impersonali del mercato. Compito fondamentale del sistema pianificato dei prezzi non è più quello della massimizzazione del profitto, ma quello del maggior soddisfacimento dei bisogni sociali, dello sviluppo equilibrato dei settori economici, quello della migliore trasformazione dei rapporti economici in senso socialista.

La stesura e il calcolo dei prezzi segue e non precede, in linea di principio, la stesura dei piani di produzione e di investimento e ne rappresenta uno strumento di realizzazione. Inoltre, la fissazione dei prezzi costituisce il mezzo attraverso cui il piano sottomette il mercato ed esprime dunque una superiorità del politico sull’economico, al contrario di quanto accade nelle economie capitalistiche. Nei confini della sfera dell’economia di Stato, ove i beni prodotti perdono il loro valore di scambio (nella misura in cui non vengono venduti ma trasferiti da un’azienda all’altra), i prezzi mantengono una funzione puramente contabile.

L’eliminazione dei prezzi potrà essere conseguita solo dopo una lotta lunga e tortuosa tra piano e mercato, tra forze coscienti del processo economico e le cieche leggi mercantili, solo dopo aver raggiunto una socializzazione integrale della vita economica. Solo allora gli uomini potranno passare all’appropriazione diretta dei prodotti.


SUL DENARO – Anche il denaro sopravviverà nella fase di transizione, poiché resterà uno strumento per misurare il rendimento delle aziende, comprese quelle socializzate; ciò tramite i costi comparati della produzione. Il denaro resterà un mezzo di misurazione economica e di contabilità, nonché uno strumento per attuare la distribuzione dei beni di consumo e di tutti quei prodotti che conserveranno la forma di merce. Il denaro perderà la sua funzione capitalista, poiché, essendo vietata la compravendita individuale dei mezzi di produzione e della forza-lavoro, non potrà più venir valorizzato e convertito in capitale. L’esistenza del denaro, come mezzo di scambio delle merci, non attesta quindi, di per sé, la permanenza di un modo di produzione capitalistico, come hanno manifestato parecchi ultrasinistri.


SUL SALARIO – La forma salario, come le altre categorie mercantili, subirà un processo di graduale dissolvimento nella fase di transizione. Non appena i mezzi di produzione avranno abbandonato la loro natura di capitale, il salario avrà già perso il suo contenuto capitalista (come le altre categorie mercantili) e ne conserverà solo la forma. Ma l’abolizione del capitale deve condurre a certe condizioni alla soppressione del salario in quanto tale e allo stabilirsi di una nuova forma di remunerazione sociale del lavoro. Ciò sarà possibile solo quando i produttori associati potranno disporre direttamente del sovraprodotto sociale e non indirettamente (il che presuppone l’organizzazione della produzione non in base ai valori di scambio, ma in base ai valori d’uso).

Nella fase di transizione, il lavoro dell’individuo verrà ancora remunerato secondo criteri borghesi: da ciascuno secondo il suo lavoro, a ciascuno secondo le sue capacità. Ognuno riceverà uno scontrino (che non è denaro, come diceva Marx, in quanto non può circolare) che gli permetterà di attingere dal fondo di consumo sociale tanti beni-lavoro quanto lavoro egli ha prestato, meno una parte che serve ad alimentare il fondo sociale di accumulazione. Tale forma di remunerazione avrà già perso il suo carattere capitalistico, in quanto il lavoro dell’individuo non è più lavoro alienato che serve alla valorizzazione del capitale.

Occorre smentire l’illusione che con il passaggio al comunismo non esisterà più una remunerazione del lavoro. Il lavoro socialmente necessario caratterizzerà ogni tipo di formazione sociale umana. Anche nel comunismo ci sarà un lavoro obbligatorio per tutti e gli individui riceveranno una remunerazione proporzionata al lavoro prestato. Tuttavia, a quel momento, la produttività del lavoro sarà così elevata e la giornata lavorativa così corta e il lavoro talmente poco alienante, che il tempo e il sacrificio del lavoro saranno ben poca cosa rispetto alla libertà, alla creatività e alla ricchezza che si sprigionerà nel tempo liberato dal lavoro, nel tempo disponibile. Sarà a quel punto che noi potremmo inscrivere sulla bandiera: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.




BIBLIOGRAFIA

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K. Marx, Il Capitale, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 6
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K. Marx, Il Capitale, op. cit., vol. I, p.
K. Marx, Grundrisse, op. cit., p. 75
F. Engels, Anti-Dühring, op. cit., p. 331
K. Marx, Il Capitale, op. cit., p. 50
Ibidem, p. 50
Lenin, Quaderni Filosofici, Berlino 1959, p. 89
R. Hilferding, Economia borghese ed economia marxista, Il Mulino, p. 123
K. Marx, Grundrisse, op. cit., pp. 66-68
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Y. A. Preobazensky, La nuova economia, Jaca Book, 1971, p. 177
K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 92
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Ibidem
K. Marx, Il Capitale, op. cit., vol. III, p. 256
L. Trotsky, Marxism in our Time,
K. Marx, Lettere a Kugelmann, op. cit., p. 93
K. Marx, Il Capitale, op. cit., vol. III, p. 220
H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca Book, 1977, p.
K. Marx, Il Capitale, op. cit., vol. III, p.
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Ibidem
Ibidem
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K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1978, p.






VALORE-LAVORO PREZZI E SAGGIO DI PROFITTO: PERCHE' LA TEORIA DEGLI SRAFFIANI NON FUNZIONA




premessa


Le tesi sviluppate Ennio e Giacomo nel loro documento sul “perché la teoria del valore di Marx non funziona” rappresentano una pedissequa riproposizione della teoria neoricardiana sostenuta da autori post sraffiani come Pierangelo Garegnani e Claudio Napoleoni (1) i quali, partendo dal testo di Sraffa “produzione di merci a mezzo di merci” (che non voleva essere affatto una critica a Marx ma semmai ai marginalisti, Marx nel testo é citato solo una volta) deducono un modello che smentisce Marx e conferma invece le critiche avanzate, già alla fine dell'Ottocento, da autori come Bohm Bawerk, Achille Loria Samuelson e Bortkiewicz. Qual'era la sostanza di queste critiche? Che la teoria del valore non funziona in quanto c'è una contraddizione insanabile tra il primo e il terzo volume del capitale ed errata sarebbe l'equazione della trasformazione dei valori in prezzi. Venendo a cadere la legge del valore-lavoro crolla tutta l'impalcatura del “Capitale” e quindi la spiegazione marxista del meccanismo di funzionamento del sistema capitalistico. I nostri pensavano di essere andati in brodo di giuggiole al solo pensiero di aver spuntato allo spettro di Marx l'arma fondamentale della sua critica al capitalismo. Ma come vedremo questo presunto attacco al cuore si rivelerà solo una chimera, condita però di un retrogusto amaro avendo avuto pure la pretesa di dimostrare che lo stesso Marx si sarebbe avveduto del problema che la legge del valore non funziona e in quattro righe avrebbe “demolito” tutto il suo lavoro di ricerca durato un ventennio.(1)

Per quanto riguarda le critiche a Bohm Bawerk e Achille Loria rimandiamo alle repliche di R. Hilferding e F. Engels. (2) Io qui mi devo occupare di rispondere alle Tesi di Ennio e Giacomo. Prima di affrontare “la teoria della trasformazione dei valori in prezzi” però voglio porre una prima domanda ad Ennio e Giacomo: Avete mai studiato il Capitale di Marx? Da ciò che scrivete sembrerebbe di no. Come si può avere allora la pretesa di smontare Marx senza averlo studiato? Che serietà è quella di portare un affondo quasi drammatico ad un grande pensatore solo sulla base della lettura di alcuni suoi critici contemporanei che vanno per la maggiore nell'ambiente accademico, senza peraltro citare la critica della critica operata da autorevoli economisti marxisti che hanno smontato pezzo a pezzo Sraffa e i suoi epigoni? (3)


salari

Che non avete affatto preso in mano il testo di Marx si rileva da questa vostra affermazione:

“Per quanto riguarda i salari invece, l'idea di Marx (e dei classici) é che la loro evoluzione non sia un fenomeno da spiegare tramite una teoria del valore di scambio. I salari sono considerati da Marx un dato da cui la teoria parte, cioè un dato empirico che non si cerca di spiegare (ovviamente per dar conto dei salari si può pensare alla teoria della lotta di classe o a quella malthusiana, ma siamo in ogni caso fuori dalla teoria del valore di scambio)”. Tutto ciò è falso. Marx è stato il primo a fornire una descrizione completa e scientifica della dinamica dei salari sia nel primo volume del Capitale che nei due testi meno famosi “salario, prezzo e profitto” e “lavoro salariato e capitale”. Sarebbe stato veramente paradossale che il più grande filosofo, politico ed economista delle classi subalterne moderne non avesse spiegato la dinamica delle retribuzioni del proletariato. Non vi viene un barlume di dubbio che vi spinga a scartabellare le centinaia di pagine scritte da Marx sulla questione del salario? Ecco come l'autore del Capitale risolve la questione del salario attraverso la teoria del valore-lavoro: il salario non è altro che il valore della forza-lavoro determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei beni di sussistenza dei lavoratori. E' ovvio che il livello della retribuzione salariale, questo nocciolo duro della sussistenza, è una variabile che dipende in basso dai bisogni fisici sotto i quali un operaio non può scendere, e in alto dalle circostanze storiche di ogni nazione, dalla stratificazione dei bisogni e dall'evoluzione della lotta di classe ma questo è proprio il dato empirico da cui Marx astrae non certo dalla sostanza e dal contenuto del salario come espressione monetaria del valore della merce forza lavoro.

In verità è negli schemi di Sraffa e dei suoi seguaci che manca una teoria del salari che vengono sostituiti dai beni di consumo dei lavoratori un po' come si potrebbe includere nei costi di produzione il foraggio per il bestiame. Se per Marx il livello reale della retribuzione non può essere conosciuto al momento in cui viene contrattato il salario, perché dipende dal livello dei prezzi dei beni di consumo dei lavoratori, per gli Sraffiani la quantità, la composizione e i prezzi dei beni-salario sono dati presupposti. Inoltre viene a mancare negli schemi la caratteristica che fa del salario un Capitale Variabile ossia forza lavoro viva che valorizza il capitale e non puro e semplice valore dei mezzi di sussistenza. Marx fa lo stesso rimprovero a Smith:

“La definizione del capitale variabile in contrapposizione al capitale costante viene seppellita in Smith sotto la definizione secondo cui la parte del capitale sborsata in forza-lavoro, per quanto riguarda la rotazione, appartiene alla parte circolante del capitale produttivo. Il seppellimento viene completato considerando come elemento del capitale produttivo al posto della forza-lavoro i mezzi di sussistenza del lavoratore....Con ciò è seppellito di un colpo il fondamento per la comprensione del movimento reale della produzione capitalistica e perciò dello sfruttamento capitalistico”. (4)


il profitto

Quando si passa dal salario al profitto il secondo errore di analisi del documento é ancora più grave:

“Questo secondo obbiettivo (spiegare il profitto come proveniente dal plusvalore e quindi dallo sfruttamento) é impossibile da raggiungere a meno di definire in altro modo le grandezze in gioco (prezzi, profitti e valore-lavoro). Tuttavia questo non significa affatto abbandonare l'idea che i lavoratori siano sfruttati (del resto lo erano anche gli schiavi senza che esistesse il profitto e il capitalismo). Significa però riformulare la teoria dello sfruttamento in termini diversi. Il profitto può sempre essere pensato come reddito tolto ai lavoratori in modo illegittimo, basta mostrare che i capitalisti riescono ad imporre ai lavoratori un salario inferiore rispetto al contributo alla produzione (cosa a pensarci bene non troppo complicata, vista l'asimmetria in termini di potere contrattuale a causa del possesso dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti)”. Qui siamo al sofisma più assoluto che entra in contraddizione con se stesso. Siccome a livello aggregato i prezzi di produzione totali non sono uguali ai valori totali, cosa che Marx da per scontato ma Ennio e Giacomo smentiscono senza dimostrarlo, allora non si può neanche dire che il profitto é una quota del plusvalore, ossia dell'espressione monetaria delle ore di lavoro non pagato fornito dagli operai (cosa su cui era d'accordo anche Ricardo.....ma non eravate neoricardiani?) ai capitalisti. Ma subito dopo si contraddicono sentenziando che comunque lo sfruttamento esiste in quanto i capitalisti tolgono illegittimamente del reddito appartenente ai lavoratori. E' una contradictio in adjecto. Delle due l'una o il profitto è una giusta remunerazione dell'imprenditore come pensano i marginalisti e allora non è frutto dello sfruttamento di classe, oppure come dice Marx è un prelievo sul plusvalore a prescindere dal fatto se questo prelievo è calcolato ai prezzi di produzione o ai valori. Il fatto che il profitto sia calcolato ai prezzi di produzione anziché ai valori potrebbe determinare una discrepanza di qualche punto percentuale sul calcolo finale ma non potrebbe cambiare la sua tipica natura di forma fenomenica del plusvalore. Ennio e Giacomo nel tentativo di fare un Bricolage tra marginalismo neoricardianesimo e marxismo sono incappati nella più classica delle contraddizioni che viola il primo principio della logica aristotelica (se a è uguale ad a non può essere uguale a non-a). Ma la motivazione psicologica che è alla base di questo sofisma auto-contraddittorio è che gli accademici maestri di Ennio e Giacomo, anche analizzando il profitto come espressione dello sfruttamento, devono comunque separarlo dalla categoria marxiana di plusvalore perché Marx è il nemico ideologico e se anche chiama mele le mele noi bisogna chiamare pere le mele.

Marx si incarica di rispondere alla tesi di Ennio che vedono nella genesi del profitto un risparmio sui costi del lavoro e lo fa in questo modo. Nel processo D-M-D* l'estorzione di lavoro non pagato appare al capitalista (come ad ennio) soltanto come risparmio nel pagamento di uno degli elementi che entrano nei costi, proprio come si risparmia quando si comprano a minor prezzo le materie prime. Così apparendo tutte le parti del capitale egualmente come fonti del valore eccedente (profitto) il rapporto capitalistico risulta mistificato. L'analisi della provenienza del plusvalore serve appunto a scoprire il processo reale al di sotto di queste apparenze”. (4) einaudi bortkievis pag xxix . Marx ci vuole dire che il profitto non origina dal risparmio sul costo del lavoro perché la forza lavoro viene comprata al suo vero valore di scambio. Ma siccome il capitalista acquista una merce vivente il cui valore d'uso, la cui utilizzazione ha la facoltà di vivificare il capitale di valorizzarlo ecco spiegato l'enigma del plusvalore, che ad Ennio appare invece come prodotto da tutto il capitale anticipato o meglio come un risparmio sui costi del capitale anticipato.

Nella formula D-M-D* il possessore di denaro deve comprare le merci al loro valore, le deve vendere al loro valore eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ne abbia immesso. Perché ciò si possa realizzare il capitalista deve scoprire sul mercato una merce il cui valore d'uso possiede la peculiare facoltà di essere fonte di valore e tale merce specifica é la forza lavoro. Il processo di consumo della forza lavoro è insieme processo di produzione della merce e poiché il valore prodotto dal consumo della forza-lavoro è maggiore del valore della forza lavoro, l'uso della forza lavoro nel processo produttivo crea un plusvalore. Ciò permette che il valore della merce prodotta sia superiore al valore delle merci usate per produrla (6) pag XIII



I prezzi

mo al terzo problema di natura ontologica sollevato da Ennio e Giacomo e che può essere così ribattezzato: siccome nella realtà del capitalismo avanzato le merci si scambiano ai prezzi di produzione e non ai valori lavoro e neanche a livello aggregato i valori complessivi coincidono con i prezzi complessivi (come era nell'ipotesi di Marx) allora gettiamo alle ortiche la teoria del valore-lavoro e dedichiamoci al ben più realistica teoria dei prezzi. E' inutile e quasi impossibile andare a calcolare le ore di lavoro dietro ogni merce perché la merce é diventata una merce mondiale; e come calcolare le ore di lavoro a produttività media di una merce che ha componenti che arrivano da 10 paesi del pianeta ognuno dei quali con produttività diversa? Se questo é già difficile per una merce si immagini quanto sia complicato per il calcolo del totale del valore delle merci mondiali. Ergo sostituiamo la teoria del valore-lavoro con una più pratica teoria dei prezzi e dei costi di produzione che ci consente di calcolare il valore di scambio di ogni merce in base alla sommatoria dei prezzi di produzione di tutte le sue componenti moltiplicata per un saggio medio di profitto. Qual'è quindi la grande novità di questa nuova teoria? Che i prezzi posso essere determinati e calcolati attraverso i prezzi senza scomodare un ipotetico studioso di econometria che impazzirebbe alla sola idea di calcolare i prezzi in base alla ore di lavoro. Ma Ennio e Giacomo e tutti i loro maestri cadono in un plateale circolo vizioso. E' chiaro che, parafrasando Marx (4) se noi facciamo dei prezzi la misura di altri prezzi non facciamo che spostare la difficoltà perché a loro volta gli altri prezzi hanno bisogno di essere determinati. “Espresso nella sua forma più astratta questo significa che il prezzo é determinato dal prezzo e questa tautologia significa in realtà che del prezzo non sappiamo niente”.

Ma vediamo la questione da un punto di vista filosofico. Seguendo il ragionamento dei critici di Marx e usando le categorie di Spinoza, avremmo degli attributi (i prezzi) senza sostanza (i valori). Con Hegel avremmo delle forme senza alcuna essenza e con Kant avremmo dei fenomeni (i prezzi) con un noumeno inconoscibile (il valore). Ricorrendo invece alla metafora di Platone con la teoria dei prezzi di Garegnani and company saremmo immersi invece nel buio più totale della caverna. I suoi abitanti, incatenati tutta la loro vita, potrebbero vedere solo le ombre (i prezzi) proiettate sulla parete senza mai accorgersi delle entità reali di cui sono riflesso attraverso la luce del fuoco. Per essi le ombre sono l'unica realtà conoscibile. Compito del filosofo sarebbe per Platone non quello di contemplare la caverna dall'esterno ma quello di entrarvi per liberare gli individui dalle catene che imprigionano i corpi e la conoscenza.

Per Marx filosofo e scienziato non si da scienza e conoscenza ove la forma (il prezzo) coincide con la sostanza (il valore). Compito dello scienziato é quello di svelare il contenuto reale dietro le apparenti e spesso devianti forme fenomeniche. Per raggiungere questo scopo analitico occorre impiegare il metodo dell'astrazione dialettica il quale consente di scoprire i nessi e quindi le leggi che muovono la totalità concreta, depurandoli dalle infinite perturbazioni. Solo così si arriva a delineare il concreto reale che é sintesi di molteplici nessi e determinazioni concettuali. Dall'astratto al concreto non ci si allontana ma ci si avvicina alla realtà. Ennio e Giacomo usando i loro metodo formalistico-quantitativo (opposto a quello di Marx dell'astratto qualitativo) non solo rimangono prigionieri delle apparenze ma cadono vittima altresì della seconda trappola fenomenologica concettualmente delineata da Marx: il feticismo della merce. La società capitalistica diventa unna immensa raccolta di merci, di prezzi, di azioni, di titoli di denaro che possono essere computati matematicamente mettendoli in relazione gli uni con gli altri senza mai giungere all'essenza dei rapporti sociali e del lavoro umano di cui sono emanazione. Computando, pesando e dimensionando la massa delle apparenze concrete gli economisti volgari e marginalisti hanno pensato di aver elaborato una grande scienza economica piena di formule, dati e grafici ma quando gli scoppia la crisi mondiale davanti agli occhi rimangono basiti e si accorgono che questa congerie di algoritmi non solo non gli consentiva di prevederla ex-ante ma neanche di spiegarla ex-post.

Il metodo formalistico-quantitativo non ci consente di capire il funzionamento della società capitalistica più di quanto la cronaca televisiva dei fatti quotidiani ci consente di capire la realtà.

L'alienazione che è una precondizione della trappola feticistica può essere cosi sintetizzata: più noi contempliamo le apparenze meno viviamo. Più accettiamo di riconoscerci nelle immagini e negli algoritmi meno comprendiamo la nostra esistenza e il nostro destino.

Sraffa ci ha intitolato pure il libro: produzione di merci a mezzo di merci. Togliendo di mezzo il processo di lavoro e il denaro e dipingendo un modello economico dove le merci producono merci e le cose producono cose ha realizzato un bell'affresco teorico di ciò che Marx intendeva per Feticismo. Ma il modello a due equazioni e due merci grano e ferro (ripreso a piene mani da Ennio e Giacomo) senza la presenza dell'equivalente generale, di monsignor il denaro, è un modello in cui la riproduzione é sempre garantita, le proporzioni tra i settori sempre raggiunte, il saggio di profitto sempre uguale presunto e inviolato, quindi può valere per qualsiasi tipo di formazione sociale da quella feudale a quella dei piani quinquennali, senza dirci nulla sulla dinamica di queste formazioni sociali e men che meno di quella capitalistica. Un modello in cui le merci si scambiano con merci come in un baratto e non c'è più l'intermediario del denaro é un modello che non spiega il mercato proprio perché scopo della produzione capitalistica non é scambiare merci con merci ma merci con denaro. La formula non é M-M (merce merce) bensi D-M-D' (denaro-merce-denaro valorizzato). Il denaro con cui il capitalista da avvio al processo di accumulazione può anche non incontrasi e scambiarsi con merci e le merci prodotte possono non incontrarsi e realizzarsi in denaro. Questa possibilità del non incontro, spiegabile attraverso la dinamica di evoluzione del saggio di profitto e l'anarchia che governa il mercato, da luogo alla Crisi, quell'oggetto misterioso che Sraffa esclude a priori oscurando l'equivalente generale e presupponendo un equilibrio a priori.

E' vero: anche Marx, elaborando i modelli di riproduzione semplice ed allargata, presuppone un equilibrio a priori senza denaro dove la proporzione tra i settori é sempre conseguita, in un processo di espansione all'infinito. Ma questa astrazione gli serviva per dimostrare che nella realtà non si realizza mai o se si realizza é solo attraverso violente crisi, guerre di conquista, repressioni di cui il proletariato avrebbe dovuto approfittare per avviare un percorso di emancipazione. Se Marx si fosse fermato all'equilibrio presupposto dei modelli di riproduzione sarebbe stato un Quesnay, un Walras uno spudorato e falso apologeta del capitalismo. I modelli li ha fatti lavorare con l'ipotesi della caduta del saggio di profitto, della svalorizzazione e della sproporzionalità realizzando un insieme teorico che ancora resiste all'usura del tempo.

La teoria della trasformazione dei valori in prezzi in Marx non é un assioma -come pensano Ennio e G.- da cui Marx vuole dedurre tutte le leggi della realtà capitalistica. Quindi dimostrato falso l'assioma possiamo dire che la legge del valore e del plusvalore e della caduta del saggio di profitto sono deduttivamente non vere. Niente affatto. La trasformazione é un ipotesi concettuale astratta come quella degli schemi della riproduzione di Marx (ma anche del modello di Sraffa) che non vediamo nella realtà concreta ma ciononostante ci aiuta a capire perché i prezzi di produzione, pur non coincidendo quasi mai con i valori, a livello aggregato e tra molteplici oscillazioni tendenzialmente vi corrispondono, vi gravitano. Come ipotesi astratta é paragonabile alla teoria di Einstein della curvatura dello spazio tempo causata dalla forza gravitazionale. Un occhio umano vede tutto in modo rettilineo e non potrebbe mai accorgersi della curvatura del spazio tempo, ciononostante se spariamo un fascio di luce verso un punto x noi sappiamo di non poterlo trovare li perché anche il fascio di luce viene curvato dalla forza gravitazionale. Cosi vale per i prezzi e i valori. Ennio e Giacomo potrebbero calcolare in modo statico e rettilineo il prezzo di ferro e grano di una nazione deducendolo dai costi di produzione e non dai valori ma se in un'altra nazione l'aumento della forza produttiva del lavoro fa crollare il prezzo di ferro e grano anche il prezzo calcolato da Ennio non é più valido perché é sceso proporzionalmente all'aumento medio e globale della forza produttiva del lavoro.

Supponiamo che la mia azienda oggi compra un capannone pagandolo 100. Se 10 giorni dopo, l'aumento della produttività del lavoro fa scendere il prezzo a 80, la mia azienda deve computare il prezzo medio di ottanta sul bilancio patrimoniale di fine anno (alla voce costi) e non quello di 100. Il modello di Sraffa e di Ennio quindi non tiene conto neanche della dinamica temporale di svalorizzazione del prezzo ai fini stessi della definizione di un bilancio economico. E' un modello statico e non dinamico.

Quando diciamo che i prezzi di produzione cambiano in modo inversamente proporzionalmente alla produttività del lavoro non facciamo altro che confermare la legge del valore-lavoro di Marx poiché il prezzo di produzione diventa una variabile dipendente del valore ossia del tempo di lavoro socialmente necessario. E' il prezzo una variabile dipendente del valore e non il valore una variabile dipendente del prezzo. Usando la metafora di Einstein e' il movimento della luce una variabile dipendente dalla forza gravitazionale e non viceversa.

Per il teorema del matematico Ghodel se c'è un caso in cui la formula (trasformazione dei valori in prezzi) non é vera non vuol dire che l'ipotesi (la legge del valore) é sbagliata. E' una replica alla tesi di Popper che se c'é un cigno nero allora vuol dire che é sbagliato assumere che tutti i cigni sono bianchi. Tra prezzo di produzione e valore singolo del bene non c'è sempre un legame stretto, necessario e biunivoco. I prezzi di produzione possono divergere dai valori non solo per la tendenza al livellamento del saggio medio di profitto ma anche per altri fattori come la presenza di una rendita differenziale o di un monopolio. In presenza di un mercato monopolistico o oligopolistico ad esempio l'azienda può decidere di tenere alti i prezzi di produzione dei suoi beni nonostante l'aumento della produttività del lavoro. In questo caso il prezzo reale é superiore non solo al valore ma anche al prezzo di produzione. Di conseguenza l'azienda realizza un sovrapprezzo e un sovrapprofitto. Ma la differenza tra il sovrapprezzo e il prezzo di produzione non rappresenta creazione di nuova ricchezza sociale, non può essere computata tra le componenti attive del PIL di una nazione ma é solo ricchezza sottratta ai consumatori o a altri capitalisti. La realizzazione del prezzo di produzione e del sovrapprezzo, che si attua nella sfera della circolazione, non crea nuova ricchezza ma tutt'al più la redistribuisce.

La ricchezza reale di una nazione, quindi il valore complessivo del suo prodotto, si crea nella sfera della produzione e non in quella della circolazione. E' questo ciò che Ennio e Giacomo non comprendono. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione si svolge invece nella sfera della circolazione delle merci e del capitale. Come nel teorema di Levoisier essa non crea e non distrugge ricchezza, non aggiunge valore, ma può solo ripartirlo tra le diverse sfere dei capitali. La Trasformazione non si attua nella fase della valorizzazione ma in quella della realizzazione delle merci. La legge del valore ci da il computo della ricchezza creata, la legge della trasformazione ci da il computo della ricchezza ripartita. Per questo non potrà mai esserci una qualsivoglia formula sbagliata della trasformazione che possa inficiare la legge che opera a monte della trasformazione, nel campo della produzione della ricchezza.

Possiamo per ipotesi assumere che la trasformazione di Marx presenta difetti dal punto di vista del calcolo matematico, perché magari non si realizza mai un saggio medio di profitto come nelle sue postulati o perché i costi di produzione sono stati calcolati ai valori invece che hai prezzi. Ciò significa che il modello non spiega perfettamente come la ricchezza viene ripartita. Ma quale matematico quale esperto di econometria potrebbe avere la pretesa di creare la matrice perfetta, l'algoritmo che spiega come la ricchezza creata in un economia integrata su scala mondiale sia ripartita tra innumerevoli settori di produzione, nazioni con differenti economie di scala, differenti livelli di produttività etc etc? Semplicemente non può esistere, nessuno l'ha mai creata e nessuno potrà mai inventarla perché occorrerebbe una matrice con tante variabili quanti sono i settori dell'economia mondiale e con tante altre quanti sono i livelli di produttività. In più ci sarebbe anche da calcolare, come in tutti i fenomeni sociali, il fattore tempo e l'elemento della imprevedibilità delle decisioni.

Per il geniale Ghodel ci sono equazioni che non possono avere una soluzione e io credo che questa é proprio una di quelle. Possiamo solo creare un modello astratto come quello di Marx che depura il movimento economico della trasformazione da mille fattori perturbativi ma esso non ci darà mai una chiave per quantificare alla perfezione la totalità concreta e mutante.

Einstein é morto con il cruccio irrisolto di escogitare la formula universale che illustra i nessi e il funzionamento di tutto l'universo fisico. Non ci riuscì e nessuno credo potrà mai trovarla. Se ciò é vero nel mondo fisico lo é ancor più nel mondo sociale e storico dove i mutamenti sono più rapidi e spesso imprevedibili per la presenza di un'eterogenesi dei fini.

Ecco perché le leggi economico-sociali di Marx sono leggi tendenziali. In natura la legge chimica e fisica si realizza istantaneamente ed in modo costante nel tempo. 2 atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno fusi insieme mi daranno istantaneamente e non tendenzialmente una molecola di acqua. In economia la legge economica può realizzarsi solo in ultima istanza perché può essere ostacolata da molti elementi e controtendenze messi in atto dal progetto cosciente dell'uomo, che possono addirittura temporaneamente annullarla o rovesciarla.

Al limite non é possibile neanche formulare un equazione che spieghi il comportamento razionale di ogni singolo consumatore perché dovremmo calcolare una molteplicità di fattori che possono mutare nel tempo anche in base alla sua evoluzione psicologica e culturale.



La trasformazione dei valori in prezzi


Dopo questa lunga e spero utile premessa epistemologica tuffiamoci nella critica vera e propria dell'ipotesi di Ennio e Giacomo.

Riprendiamo il modello di Marx della trasformazione a tre settori, ove C capitale costante, V capitale variabile e PL plusvalore, R saggio medio di profitto, P prezzo di produzione, D differenza tra prezzo di produzione e valore.



I settore 80C + 20V + 20PL = 120 R=30 P=130 D = +10

II settore 70C + 30V + 30PL = 130 R=30 P=130 D = 0

III settore 60C +40V + 40 PL = 140 R=30 P=130 D = -10


Per Marx i tre settori con differente composizione organica del capitale(C/V) alla fine realizzano un uguale prezzo di produzione a causa della tendenza alla perequazione del saggio di profitto. Ciò che il terzo settore a più bassa composizione organica perde guadagna il primo settore a più alta composizione. Solo il secondo settore che produce con produttività media realizza un valore = al prezzo di produzione. Poiché in questa maniera si distribuisce in modo diverso tra i tre settori la stessa quantità di plusvalore (PL =90), Marx sostiene che “nella società la somma dei prezzi di produzione delle merci prodotte è pari alla somma dei valori”.

Ennio e Giacomo ci dicono che il modello non funziona perché Marx calcola i prezzi di produzione e il saggio di profitto sulla base dei valori ma si sa che i capitalisti acquistano gli input di capitale costante e variabile ai prezzi di produzione e non ai valori. E siccome il saggio di profitto nella realtà é calcolato fuori dal sistema dei valori ne consegue che le equazioni di Marx sono sbagliate e a livello aggregato solo per una coincidenza casuale la somma dei prezzi può coincidere con la somma dei valori. Procedono quindi a trasformare i valori della parte destra dell'equazione in prezzi di produzione moltiplicati per le quantità fisiche delle merci, per poi calcolare il saggio di profitto “corretto”.

Una procedura simile utilizzò L.V Bortkiewicz alla fine dell'800, le cui equazioni vi risparmiamo ma che furono riprese a piene mani da Sraffa e La difficoltà della trasformazione dei valori in prezzi che dipende dall'interdipendenza tra prezzi e saggio di profitto (non è possibile determinare il saggio di profitto senza conoscere i prezzi e non é possibile conoscere i prezzi senza conoscere il saggio di profitto) viene superata da Bortkiewicz determinando simultaneamente prezzi e saggio di profitto. A questo scopo utilizza delle equazioni come nel modello di Ennio in cui non c'erano più i valori ma solo le quantità fisiche delle merci moltiplicate per i prezzi e per il saggio di profitto trasformato.

Claudio Napoleoni fa la stessa operazione (nota). Ennio e Giacomo copiano il suo schema grano e ferro. Prima illustra lo schema di Marx della trasformazione, ne coglie la contraddizione nel fatto che non trasforma gli elementi del capitale produttivo poi passa ad un secondo schema di equazioni in cui trasforma i valori del capitale produttivo in prezzi di produzione simultaneamente al saggio di profitto calcolato anche esso ai prezzi di produzione. Alla fine si accorge che la somma dei valori di Marx non è uguale alla sua somma dei prezzi di produzione e la somma dei plusvalori non è uguale alla somma dei profitti. Grazie!!! Ma il procedimento di calcolo è capzioso ed ingannevole: è chiaro come il sole che se scrivo x+y = 10 (valore) e poi li moltiplico per un coefficiente z (coefficiente di trasformazione) avrò (x+y)z diverso da 10 in tutti i casi in cui z è diverso da 1. La contraddittorietà attribuita a Marx è in realtà frutto del depistaggio matematico operato da Napoleoni. Ennio e Giacomo sono cascati in pieno nella finzione algebrica di Napoleoni.

Ora voglio dimostrare invece che il modello di Marx è giusto, e tutte le fatiche dei suoi detrattori del tutto inutili, perché possiamo benissimo supporre che nel lato sinistro delle equazioni i valori sono già trasformati in prezzi di produzione senza sconvolgere il modello stesso. Nel modello infatti le aliquote di capitale anticipato nei tre settori sono pari a 100. Se chiamo C+V somma dei prezzi di produzione del capitale costante e dei beni salario invece che valore di essi non cambia assolutamente nulla perché ciò che importa è la proporzione tra le quantità e non il loro ammontare assoluto che è sempre pari a 100 sia se calcolato in valori che in prezzi.

E' ovvio che C+V è la somma del denaro complessivamente sborsato per i salari e per i mezzi di produzione ed il capitalista li trova sul mercato ai valori già trasformati e quindi anche il denominatore della formula che esprime il saggio generale del profitto coincide nei due sistemi di calcolo. Ciò era chiaro anche nel primo volume del capitale quando Marx descrive la formula D-M-D'. Il possessore di denaro acquista le merci (C+V) e realizza un profitto pari a D'-D. Ma questo capitalista non acquista C + V ai valori di scambio che impone il mercato, cioè ai prezzi e non ai valori?

e scrive Sweezy secondo il metodo seguito da Marx la produzione totale, i salari totali, il saggio di plusvalore e il saggio di profitto non subiscono alcuna alterazione nei passaggio dai termini di valore ai termini di prezzo. Inoltre le forze messe in movimento dall'instancabile caccia che i capitalisti danno agli aumenti di reddito e alla ricchezza operano con molto vigore e precisamente con gli stessi ampi effetti tanto nel caso che si tratti di un sistema di calcolo del valore quanto nel caso che si tratti di un sistema di calcolo dei prezzi” (7) Sweezy la teoria dello sviluppo capitalistico pag 149

Quindi la relazione quantitativa tra profitti e salari, tra i grandi aggregati del valore del plusvalore del capitale variabile e costante nonché la spinta che anima il sistema capitalistico alla massima valorizzazione non cambia nei due sistemi di calcolo, posto che i valori non siano già stati trasformati (ipotesi che io escludo). Gli sraffiani hanno invece la pretesa di dire che siccome é sbagliato il calcolo della trasformazione la legge del valore, che è anche legge della valorizzazione che norma i comportamenti degli agenti della produzione, non ci serve a nulla. E' come dire: siccome il capitalista trova sul mercato dei prezzi differenti dai valori di Marx allora diversa é anche il comportamento del capitalista dello speculatore e dell'operaio e le loro contraddizioni reciproche i loro rapporti di produzione Insomma gli sraffiani non solo non vedono l'essenza dietro l'apparenza ma invertono l'apparenza con l'essenza.

Avrebbero fatto più bella figura invece a concludere, coerentemente con le loro correzioni nei calcoli della trasformazione, che la legge del valore è modificata ma non abolita. Il sovrappiù è sempre sovrappiù sia che si calcoli in ore o in denaro. Il salario di sussistenza è sempre salario sia che si calcoli ai prezzi o ai valori dei beni-salario. Ma il rapporto tra profitto e salario non è un rapporto monetario solamente è un rapporto di classe e nessuno più di Marx ha compreso quanto esso sia regolato dalla caccia al massimo profitto che nella fabbrica si traduce in economia di tempo di lavoro. Atomi di tempo di lavoro questa è sempre stato il motivo del contendere e non c'è più plateale conferma della legge del valore che il testo di Taylor sull'organizzazione scientifica del lavoro dove ogni pausa, persino quella in cui l'operaio si reca al bagno viene scientificamente calcolata ed abbreviata. Se il tempo di lavoro sottratto alla pausa e ad un ritmo ed intensità umana di lavoro è tempo di valorizzazione del capitale (vedi gli ultimi accordi Fiat tra Sindacati e Marchionne) ciò significa che la misura dei valori in base al tempo di lavoro é ancora inscritta nella dinamica stessa dei rapporti capitalistici.

La determinazione simultanea dei prezzi e del saggio di profitto operata da Bortkiewicz e Sraffa si rivela invece un errore perché distinta é la fase temporale dell'acquisto dei mezzi di produzione materie prime e forza lavoro dal momento in cui li realizzano sul mercato vendendo le loro merci. Il capitalista compra il primo gennaio 2011 gli elementi del capitale e rivende il 1 dicembre 2011 le merci. In questo intervallo di tempo il saggio di profitto può cambiare ed addirittura crollare. Nell'architettura complessiva del capitale di Marx è prevista la modificazione del saggio di profitto in quello di Sraffa no. Di conseguenza il saggio di profitto è sempre uguale a se stesso perché l'analisi è statica mentre nell'analisi dinamica di Marx è sottoposto a delle fluttuazioni che spiegano la crisi e la dinamica reale di sviluppo del capitalismo. E' un caso che nessuno cita Sraffa per comprendere le contraddizioni del capitalismo reale mentre ancora tutti devono ricorrere a Marx?

Ma non basta. In Sraffa non manca solo una descrizione della dinamica del saggio di profitto, manca anche una spiegazione causale del profitto. Nel modello a due merci grano e ferro il profitto sorge indistintamente da tutto il capitale anticipato (grano +ferro +salari) “Così apparendo tutte le parti del capitale come fonte del profitto il rapporto capitalistico risulta mistificato” e la vera fonte del plusvalore mascherata. Per Marx invece il capitale anticipato è scomposto in capitale costante e capitale variabile cioè in una parte © che si ammortizza nel valore finale senza aggiungere valore e in una parte variabile (V) che riproduce il suo valore e contemporaneamente aggiunge valore al capitale grazie al potere valorizzante della viva forza- lavoro del salariato. Non é una distinzione di poco conto: i salari non valorizzano, il Capitale variabile si. I salari sono semplice equivalente monetario della retribuzione di chi lavora, il capitale variabile è valore della forza-lavoro che valorizza il capitale, è componente monetaria e componente umana è quindi un rapporto sociale di sfruttamento. Checche ne dica Ennio il suo modellino a Grano e Ferro maschera e mistifica lo stesso sfruttamento di classe dietro una terminologia neutra ed apologetica, facendo arretrare la critica dell'economia politica ad una fase prericardiana (altro che neoricardiana!!!).

Come corollario il modello presenta un'altra grave incongruenza. Se il profitto deriva da tutto il capitale C+V e non da V, posto C+V = 100, qualsiasi cambiamento della composizione organica del capitale da come risultato lo stesso saggio di profitto, mentre sappiamo che in Marx un aumento del composizione organica a parità di saggio di plusvalore tende a far scendere il tasso medio di profitto, fatte salve le tendenze contrastanti. Insomma ecco come si spiega che il modellino a grano e ferro é un a priori kantiano che presuppone un sovrappiù costante e sempre positivo come categoria metafisica. Esso non solo non spiega il “noumeno” del valore ma neanche il “noumeno” della dinamica del saggio generale di profitto e delle conseguenti crisi economiche che attraversano l'intera storia del capitalismo.

Ennio e Giacomo sulla scorta di Garegnani sostengono che quella di Marx é una astrazione lontana dalla realtà, uno schema concettuale imposto ad essa. Ma i prezzi di produzione del modellino grano e ferro che assumono un saggio di profitto costante nel tempo non è a sua volta un'astrazione che ha assai poco in comune con la realtà? Non ricorrete anche voi ad un saggio medio di profitto che nella realtà non si realizza mai perché ostacolato da numerose perturbazioni (monopoli, rendite, tassi di cambio, imperialismo, guerre etc)?

Lo schemino degli sraffiani ci dice ben poco sul modo di produzione capitalistico. La dinamica economica più che “una produzione di merci a mezzo di merci” si presenta come una produzione di “merci da parte delle merci” anzi più correttamente di “cose da parte delle cose”. Scompare insieme al valore-lavoro l'essenza umana, la qualità che distingue l'uomo in quanto uomo: il processo di lavoro.

Ma se anche volessimo attribuire una parvenza di processo lavorativo “alle cose che producono cose” questo processo lavorativo sarebbe indistinto non avrebbe le determinazioni che distinguono un modo di produzione dall'altro. Così lo schemino potrebbe valere nello schiavismo come nel feudalesimo, nel capitalismo come nel socialismo. E' la famosa notte hegeliana in cui le vacche sono tutte nere. Come insegnava Aristotele la logica serve a distinguere e separare, l'astrazione serve a riunificare e trovare i nessi. Il procedimento di Marx é logico e astratto allo stesso tempo, quello degli sraffiani è astratto senza essere logico.

Prendiamo per buono ciò che Ennio e Giacomo affermano cioè che a livello aggregato e stando al modello di Marx i valori totali non potranno mai coincidere con i prezzi di produzione totali. Dove è la formula matematica che lo dimostra? Non ci é stata fornita e non ci può essere semplicemente perché dovrebbero calcolare tutti i valori e rapportarli ad un equivalente generale e poi calcolare tutti i prezzi di produzione e rapportarli allo stesso equivalente generale. Ma per calcolare il prezzo di una mercedes é semplice basta vedere un listino prezzi. Per calcolare il valore è quasi impossibile perché dovremmo calcolare il periodo di rotazione del capitale anticipato, poi calcolare le ore di lavoro semplice e composto del ciclo di produzione della mercedes, ridurre tutto il lavoro qualificato a lavoro semplice, considerare una intensità media del lavoro, poi calcolare le ore di lavoro che ci sono volute per produrre i mezzi di produzione dei mezzi di produzione dei mezzi di produzione, scomporre la produttività media di ogni paese e se tutto ciò é difficile per una singola merce figuriamoci per tutte le merci mondiali. Ergo non potrà mai esserci un sistema di calcolo a livello aggregato che possa darci con esattezza matematica la corrispondenza tra prezzi e valori a livello mondiale. Questa possiamo solo intuirla su un piano meramente concettuale. Infatti allo stesso modo in cui possiamo intuire che il plusvalore totale di cui si appropria la classe capitalistica a livello aggregato non può che corrispondere con il totale delle ore non pagate ai lavoratori (tolte le tasse che vanno per i servizi sociali e quant'altro) così possiamo ipotizzare che il totale dei prezzi delle merci non può che corrispondere al totale delle ore di lavoro di una nazione al tasso medio di produttività. Tutto ciò che può essere contabilizzato corrisponde a tutto ciò che è prodotto e ciò che è prodotto è cristallizzazione di tempo di lavoro socialmente necessario. Consideriamo tutta la ricchezza di una nazione pari a 100 ore di lavoro di produttività media, fissiamo un'ora di lavoro medio = 1 euro il totale della ricchezza calcolata in prezzi di produzione sarà pari a 100 euro. Supponiamo che tutti i produttori di merci si accordano nell'aumentare del 20% i prezzi di tutte le merci al solo scopo di trarne un profitto addizionale ingannando i consumatori. Cosa accadrà? Per Ennio e Giacomo la ricchezza reale della nazione, calcolata ai prezzi di produzione, passerà da 100 a 120 euro. A questo punto ci diranno che i prezzi aggregati divergeranno dai valori aggregati del 20%. Ma non é così. La crescita dei prezzi di produzione senza una corrispondente crescita delle ore di lavoro non arricchisce la nazione ma impoverisce il valore della moneta (inflazione) ferma restando l'esatta proporzione tra gli aggregati dei valori e dei prezzi (nell'esempio 1 ora di lavoro dopo l'aumento dei prezzi vale 1,20 euro con l'euro svalutato del 20%). Lo stesso accade se si verifica un aumento generalizzato dei salari magari in seguito ad una vittoria negoziale dei lavoratori. Se i salari in Europa aumentano del 20% i valori delle merci e quindi la ricchezza reale dell'Europa rimane la stessa. Ciò che diminuisce sono i profitti e quindi il tasso di plusvalore. Ma noi sappiamo che i capitalisti possono recuperare questa perdita aumentando la produttività dei beni-salario o facendo salire i prezzi dei beni di consumo.

Per Marx le categorie del valore e del plusvalore servono a spiegare il rapporto tra la classe capitalistica e la classe operaia mentre le categorie di prezzo e profitto si applicano per studiare i rapporti interni alla classe capitalistica. I primi ci danno i principi normativi e regolatori della creazione di ricchezza i secondi ci forniscono il fenomeno reale della distribuzione. Marx non si dedica a una teoria compiuta e organica dei prezzi di produzione e della distribuzione che avrebbe richiesto uno specifico volume del capitale come quelli mancanti sul mercato mondiale, sulle classi e sullo Stato. Gli basta creare un abbozzo di analisi, un percorso di studio, una sintesi macroeconomica. Dedicarsi alla complicatissima crematistica di come si formano tutti i prezzi delle merci e i comportamenti dei consumatori (come fanno i marginalisti) avrebbe richiesto delle competenze di matematica ed econometria che non aveva e lo avrebbe privato di tempo prezioso, senza far fare alcun passo avanti alla comprensione del reale. Per un teorico della economia e un filosofo della rivoluzione a che serviva questo tipo di analisi? Perdita di tempo. Gli bastava aver spiegato i meccanismi di funzionamento della creazione di ricchezza e dello sfruttamento nel modo capitalistico di produzione, il resto lo lasciava volentieri ai saccenti custodi della cattedra e ai volenterosi esperti di fumo e di equazioni inutili.

Il Moro si considerava un Newton delle scienze sociali e la stessa teoria del valore ha analogie strette con la legge della gravitazione. La legge del valore sta alla legge della gravitazione come i prezzi stanno ai pesi. Ce lo vedete Newton che invece di scoprire l'equazione universale della gravitazione sta li a pesare ogni corpo come Ennio e Giacomo fanno con i Prezzi?

Certo la legge sociale non è una legge naturale strictu sensu e i pesi economici delle merci cioè i loro prezzi non corrispondono automaticamente ai valori. Ma la non corrispondenza a livello settoriale che Marx attribuiva alla diversità delle composizioni organiche dei capitali tra i diversi settori, alla formazione del saggio medio di profitto, al monopolio e alla rendita assoluta può avere altre mille spiegazioni che non dipendono solo da fattori economici ma anche politici, militari etc. In che misura, per esempio, il signoraggio del dollaro, dietro cui si eleva la principale potenza militare del pianeta, ha condizionato la formazione dei prezzi mondiali nell'ultimo secolo? Quanto la divisione nord-sud del mondo, centro periferia incide sulla determinazione del prezzo delle materie prime? Tutto questo non è a sua volta legato alla geopolitica alle guerre di conquista, alle basi militari? Pretendere di determinare i prezzi dai prezzi e le merci dalle merci significa scivolare in una logica economicistica che rende ciechi, che impedisce di vedere il mondo come qualcosa di integrato e di multiforme. Il tutto gestalticamente non é la semplice somma delle parti ma una totalità unica ed interrelata. Il tutto del mercato non è la somma dei prezzi o dei valori ma l'insieme dei nessi economici politici culturali (per esempio il temperamento di un popolo o di una nazione) e militari. La legge del valore é solo una delle bussole di orientamento per comprendere il capitalismo come l'analisi dei modi di produzione é una bussola di orientamento per capire la storia dell'umanità, o l'incoscio di Jung e Freud una bussola per capire la psiche. Se non avessimo queste bussole ci resterebbe molto più difficile dare un ordine di senso alla cronaca infinita degli eventi e delle azioni umane.


Il denaro

Come in un abracadabra il valore sparisce perché non serve più a determinare i prezzi e al suo posto intervengono le quantità fisiche moltiplicate per i prezzi. Il circolo vizioso dei prezzi che determinano i prezzi è già stato da me criticato.

Ad un lettore attento degli schemi di trasformazione di E. e G. non può sfuggire che essi compiono una vera e propria soppressione del soggetto a favore del predicato. Per Marx “non è il rapporto in cui due merci si scambiano che determina il loro valore ma è il loro valore che determina il rapporto in cui si scambiano”.(6) La grandezza di valore della merce espressa in denaro dipende dalla sostanza di valore espressa in tempo di lavoro socialmente necessario. Gli sraffiani eliminano la sostanza di valore e lasciano che la grandezza di valore, cioè il valore di scambio si identifichi con il rapporto quantitativo con cui le merci si scambiano tra di loro. 1 kg di grano non vale perché esprime la fatica del contadino ma solo perché si scambia con 10 Kg di ferro. Il capitale e il valore che per Marx sono rapporti sociali, per gli sraffiani diventano pure relazioni matematiche, fantasmi, entità spettrali, dove l'elemento umano, apparentemente presupposto, in realtà è cancellato con un colpo di spugna. Non è questo il regalo più bello fatto dagli Sraffiani al sistema capitalistico che sacrifica l'uomo alle cose, ai numeri e al Dio denaro? Non è questa la loro dote portata alla razionalità strumentale che riduce la complessa realtà sociale a quantità indifferenziate, algoritmi, equazioni?

Ma andiamo oltre sopprimendo la sostanza di Valore per determinare i rapporti di scambio tra le merci gli sraffiani non hanno più bisogno neanche del denaro e infatti sopprimono anche esso dagli schemi. Il ferro e non il denaro diventa la misura del valore del grano. Ma quale dovrebbe essere il prezzo del ferro misura dei valori? Avremmo cioè la determinazione del prezzo del grano e di tutte le altre merci ma non quella del ferro. Siamo di nuovo in un circolo vizioso da cui se ne potrebbe uscire solo introducendo il denaro nello schema della riproduzione mercantile e capitalistica, poiché il denaro solo può essere scala dei prezzi in quanto non ha un prezzo esso stesso. Il denaro solo può essere misura del valore in quanto distinto dal valore di scambio delle merci, dalla misura in cui le merci si scambiano tra di loro. La misura astratta del tempo di lavoro socialmente necessario si esprime nella misura astratta del denaro come equivalente di tutti i valori di scambio. Gli sraffiani eliminano l'uno e l'altro e passano dal concreto al concreto (dai prezzi ai prezzi) senza la mediazione dell'astratto (sostanza di valore e denaro).

Se indico il prezzo del ferro come misura dei valori di tutte le merci non faccio altro che dire: il rapporto di scambio di tutte le merci si materializza nel valore di scambio del ferro. Ma il valore di scambio del ferro non é come una manna che cade dal cielo é cristallizzazione di tempo di lavoro sociale astratto.

Rispetto alla materializzazione uniforme dello stesso lavoro (il lavoro che produce ferro) tutte le merci presentano solo differenze di carattere quantitativo. Avremmo potuto usare l'oro al posto del ferro, come misura di tutti i valori (cosa peraltro attuata nella storia del capitalismo vedi gli stessi accordi di Bretton Woods) compreso il valore della moneta e allora ha di nuovo ragione Marx:

“Quella stessa relazione progressiva per la quale si presentano come valori di scambio l'uno per l'altro, esprime il tempo di lavoro contenuto nell'oro come tempo di lavoro generale, di cui un dato quantitativo si esprime in quantità differenti di ferro, grano, caffé etc, in breve nei valori d'uso di tutte le merci, ossia si svolge direttamente nella serie infinita degli equivalenti-merci”.... “l'oro diventa misura dei valori soltanto perché tutte le merci stimano il proprio valore di scambio in esso oro. La generalità di questo riferimento progressivo, dalla quale soltanto nasce il suo carattere di misura, presuppone però che ogni singola merce si misuri in oro in proporzione del tempo di lavoro contenuto in entrambi, che quindi misura reale tra merce e oro sia il lavoro stesso”...... “il valore di scambio delle merci espresso in tal modo come equivalenza generale e allo stesso tempo come grado di questa equivalenza in una merce specifica, è il prezzo. Il prezzo è la forma mutata nella quale appare il valore di scambio delle merci in seno al processo di circolazione”..... “quindi mediante il medesimo processo con cui esprimono i propri valori come prezzi in oro, le merci esprimono l'oro come misura dei valori e perciò come denaro”....... “presupposto il processo pel quale l'oro è diventato la misura dei valori e il valore di scambio é diventato prezzo, tutte le merci nei loro prezzi ormai non sono che immaginarie quantità d'oro di grandezza diversa”..... “le merci non riferendosi più l'una all'altra come valori di scambio da misurarsi mediante il tempo di lavoro, bensì come grandezze di eguale denominazione, misurate in oro, l'oro da misura dei valori si trasforma in scala dei prezzi”.

Insomma la merce ha la sua misura nel valore di scambio, il valore di scambio ha la sua misura nel prezzo, il prezzo ha la sua misura nel denaro, il denaro ha la sua misura immaginaria

nel valore dell'oro e l'oro ha la sua misura nel tempo di lavoro necessario a produrlo. Ritorniamo quindi alla fonte del prezzo di tutte le merci che é sempre il tempo di lavoro. Chi ha il denaro ha il potere di comandare lavoro sociale. Il denaro é il simbolo, la registrazione di questo potere e allora ha senso dire che i prezzi in quanto denaro possono essere analizzati a prescindere dal potere a cui da diritto questo denaro?

La fine degli accordi di Bretton Woods (che imponevano la convertibilità dei dollari in oro)

e l'insistenza con cui molti stati li reclamano di nuovo attesta semplicemente che il biglietto di denaro, fosse anche il dollaro (parametro di misura per tutti gli scambi internazionali) ha bisogno a sua volta di essere misurato e pesato in oro proprio per evitare che gli Stati Uniti inondino il mercato monetario di dollari deprezzando la moneta simbolo degli scambi internazionali e quindi tutti i debiti esteri espressi e contratti in dollari. Una teoria dei prezzi come quella Sraffiana che prescinde dal denaro e dalla sua misura in Oro in realtà é una scatola di numeri che potrebbe essere svuotata dallo stesso processo inflazionistico.

Il dogma sraffiano che gli scambi possono fare a meno del denaro e l'analisi dei prezzi può fare a meno dell'analisi del valore-lavoro presuppone una societa socialista in cui il lavoro particolare dell'individuo privato diventa lavoro immediatamente sociale. Presuppone quindi una società di individui associati che fa a meno del mercato e organizza lo scambio dei prodotti al suo interno come fa una azienda quando distribuisce i prodotti al proprio interno.

a le merci nel capiatlismo per confermarsi come lavoro sociale e come valore d'uso utile alla società devono alienarsi nel processo di scambio e acquisire la forma astratta del denaro, cioè mutarsi nel proprio opposto.

Se non ci fosse la merce-denaro come misura di tutte le merci non ci sarebbe ne la produzione mercantile semplice M-D-M (che non funzione come un baratto M-M) ne tanto meno quella capitalistica che come espresso nella formula D-M-D', dal denaro prende avvio e al denaro approda per poi ricominciare in un processo continuo e allargato. Al capitale in fondo non interessa una teoria del valore basata sulla misura dei rapporti quantitativi tra le merci e i loro prezzi. Al capitale interessa la teoria del valore di Marx, interessa sapere di quanto si valorizza il denaro anticipato attraverso la mediazione del lavoro astratto. Al capitale è indifferente sia l'utilità concreta del bene che vende (grano o ferro) sia la forma determinata del loro processo lavorativo. Al capitale interessa la potenza universale del denaro valorizzata dalla potenza astratta del lavoro.

Valore, lavoro denaro. Il sistema di Marx è ricco di determinazioni storiche e concettuali che ci aiutano a comprendere la dinamica del reale. Quello degli sraffiani fa a meno di queste categorie e si riduce esclusivamente a pochi rapporti tecnici input-output che non ci possono orientare ne in una analisi dei prezzi, ne in quella del modo di produzione.

Nel sistema di equazioni di Sraffa sono fissate sia le quantità prodotte che gli imput utilizzati per la produzione di ciascuna industria. “E' in base a queste quantità date che egli può costruire i suoi sistemiu e calcolare i suoi prezzi. Un mutamento di queste quantità provocherebbe dunque un conseguente mutamento delle equazioni del suo stesso sistema con un diverso risultato dei mprezzi, in quanto questi dipendono dalle quantità prodotte e utilizzate nella produzione. E' quindi il cambiamento di queste quantità a provocare il mutamento dei prezzi. Al contario mnoi sappiamo che nella realtà la produzione e le tecniche produttive mutano continuamente” e anche solo variando queste quantità, la produttività e la qualità dei prodotti da un ciclo all'altro, varierebbero anche i prezzi” (11)

La stessa simultaneità dei prezzi degli imput e degli output stabilita a priori nel sistema di equazioni é un dogma che non ha nessuna conferma nel movimento reale della produzione capitalistica. E' noto infatti che una industria può acquistare degli inputs ad un prezzo e vendere gli outputs ad un prezzo differente da quello immaginato o prefissato solo perché variano le tecniche produttive nel lasso di tempo in cui l'azienda ha acquistato e rivenduto le sue merci.

Insomma perché il sistema di equazioni di Sraffa sia risolvibile é necessario presupporre una situazione di equilibrio statico in cui la produttività del lavoro non cambia, i prezzi degli inputs sono calcolati simultaneamente a quelli degliu outputs, il denaro non esiste, i prezzi sono fissi e prefissati in base alle quantità prodotte e utilizzate nella produzione, il lavoro diventa lavoro immediatamente sociale senza la mediazione dello scambio, la proporzione delle quantità prodotte e richieste dai vari settori è fissa e garantita ex-ante. Perché le equazioni siano risolvibili bisogna far astrazione dall'essenza stessa del capitalismo, da tutte quelle peculiarità che fanno del sistema di produzione un sistema specificatamente capitalistico.



NOTE


Claudio Napoleoni propone di assegnare alla la teoria del valore solo un significato filosofico, come semplice espressione di una generica alienazione di una ancor più generica essenza umana per poi escludere ogni validità di questa teoria nell'ambito economico. Napoleoni l'enigma del valore, rinascita n° 8 del 24/02/1978


Marx scrive: “questa asserzione – che nella società la somma dei prezzi di produzione delle merci prodotte è pari alla somma dei valori di esse – sembra in contrasto col fatto che nella produzione capitalistica gli elementi del capitale produttivo sono di regola acquistati sul mercato, che i loro prezzi contengono quindi un profitto già realizzato e che per conseguenza il prezzo di produzione di un ramo dell'industria insieme col profitto che esso contiene entra nel prezzo di costo dell'altro. Ma se si mettono da un lato la somma dei prezzi di costo delle merci dell'intero paese e dall'altro lato la somma dei suoi profitti o plusvalori, è evidente che il conto deve tornare. Il Capitale vol. 3 pag. 230 einaudi. “L'esposizione ora fatta introduce invero una modificazione nella determinazione del prezzo di costo delle merci. Si era dapprima partiti dalla supposizione che il prezzo di costo di una merce sia uguale al valore delle merci consumate nella produzione di essa. Però, per il compratore il prezzo di produzione di una merce si identifica con il prezzo di costo di essa e può quindi entrare come tale nella formazione del prezzo di una nuova merce. Dato che il prezzo di produzione può differire dal valore della merce, anche il prezzo di costo di una merce, in cui è incluso il prezzo di produzione di altri, può essere superiore o inferiore a quella parte del valore complessivo di essa costituita dal valore dei mezzi di produzione che entrano in quella merce. E' necessario tener presente questo nuovo significato del prezzo di costo e ricordare quindi che un errore é sempre possibile quando, in una determinata sfera di produzione, il prezzo di costo della merce viene identificato col valore dei mezzi di produzione in essa consumati. L'indagine che stiamo presentemente compiendo non richiede che ci si addentri in un esame più particolareggiato di questo punto”. Il capitale, Einaudi vol. 3 pag 236. Insomma Marx si avvede della possibilità dell'errore nel calcolo della trasformazione ma non le da più importanza di quella che ha: un possibile errore di contabilità tale da non inficiare il bilancio della teoria, la sostanza della legge del valore. Per usare una metafora ragionieristica.

(4) K. Marx Il capitale volume III pag 229. edizioni rinascita Roma 1956.


K. Marx Teorie sul plusvalore, editori riuniti 1979 III volume pag. 138

(11) A. Vitale critica a piero Sraffa pag 25 edizioni GB 1986





IL DOTTOR CESARATTO E LA FURIA DEL DILEGUARE

Otto critiche alle sei lezioni!



Leggendo il libro del dottor Cesaratto “sei lezioni di economia”, mi sono imbattuto nel paragrafo 13, pag 60, del primo capitolo, dal titolo “la teoria del valore-lavoro lavora male”. Strabuzzando gli occhi e sobbalzando nella sedia, l’ho letto e riletto piu’ volte, poi mi sono deciso a rispondere con queste brevi note, che consegno volentieri al dimenticatoio internettaro! L’ho fatto solo per onorare ancora la grandezza e il genio del Moro di Treviri che si pretende di demolire con colpi bassi, ma che puntualmente sopravvive piu’ forte che pria . Dixit et salvavi anima meam.

Ecco cosa scrive Cesaratto:

“In un certo senso Marx sbagliava ad affermare che il capitalista estrae i profitti solo dal lavoro vivo, dal lavoro erogato quest’anno per produrre le merci, anzi in un certo senso e’ l’opposto, ne estrae di piu’ dal lavoro morto, quello erogato (diciamo) l’anno scorso per produrre le attrezzature. Se voi mettete un capitale in banca per un anno, percepirete gli interessi per quell’anno al tasso di interesse concordato; se li lasciate per due anni percepirete gli interessi per due anni e anche gli interessi sugli interessi o interesse composto e cosi’ via per piu’ anni. Il capitalista che produce oggi impiegando il lavoro diretto (capitale variabile) ha prodotto ieri attrezzature e materiali con lavoro indiretto (capitale costante). Allora semplificando, per conoscere il valore oggi del capitale costante prodotto ieri, dobbiamo conoscere il tasso di profitto: come il capitale di 100 euro che voi avete investito lo scorso anno in banca al tasso del 5% (o 0,05) vale oggi 100 euro (1+0,05) e in generale 100 euro x (1+i) se capitalizzato al tasso i, cosi’ se il capitalista ha investitto ieri un capitale di 100 euro in attrezzature, questo capitale vale oggi 100 euro x (1+0,05) (se il saggio del profitto e’ r = 0,05). In altri termini, il capitalista che anticipa in capitale per un anno ci deve lucrare il saggio di profitto normale, senno’ l’avrebbe investito in titoli sicuri. Insomma le ore di lavoro contenute in C e V non entrano nel valore di una merce in misura equivalente: quelle contenute in C vanno capitalizzate e per farlo dobbiamo conoscere il tasso di profitto (o di interesse consideriamoli sinonimi del tasso di rendimento del capitale). Nell’esempio, se il lavoro diretto V+S e il lavoro indiretto C sono entrambi di 10 ore, il valore (o prezzo) della merce non e’ 20 ore, bensi’ (v+s) + c(1+r) = 10 ore + 10 ore(1+r) =? Non possiamo risolvere questa semplice equazione senza conoscere il saggio di profitto r a cui capitalizzare il capitale anticipato l’anno prima. Ma d’altra parte se non risolviamo l’equazione non possiamo determinare r”.

piu’ oltre Cesaratto scrive “ La difesa della teoria del valore lavoro appare quindi un esercizio anacronistico spesso basato su una cattiva economia”…..e aggiunge “la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e’ vera se e’ vera la teoria del valore lavoro. Ma poiche’ tale teoria e’ falsa con essa cade anche la presunta legge” pag 68

Avete ben capito? Il Professore con quattro battute, in una sorta di hegeliana furia del dileguare, pretende di aver demolito la teoria del valore di Marx, pilastro della sua opus magnum “il capitale”, costata decenni di studi e di infaticabili ricerche. Ma in realta’ non ha demolito un bel niente! Ha solo mostrato la confusione e i circoli viziosi del suo ragionamento! Proviamo a capire perche’!! Per semplificare enumero tutti gli errori di Cesaratto, che sono tanti quante sono i periodi del suo enunciato!

1) Le macchine producono plusvalore? Cesaratto risponde affermativamente (premettendo la locuzione che denota incertezza “in un certo senso”) e lo fa insinuando un concetto tanto caro a Smith e ai marginalisti (ma come non era lui nemico giurato dei marginalisti?): il profitto non e’ solo un derivato del lavoro vivo dell’operaio ma e’ soprattutto la remunerazione del fattore capitale per il suo contributo alla produzione. Adam Smith e’ andato oltre, affermando che anche la rendita, la quale va a formare il prezzo finale delle merci, insieme ai salari e ai profitti, e’ la giusta ricompensa del latifondista per l’apporto che fornisce alla produzione, affittando terreni a chi pone in essere un impresa!! Adam Smith tuttavia non si avvide che togliendo di mezzo il latifondista (oggi potremmo dire il banchiere) non varia il prezzo finale della merce ma aumenta solo la quota di profitto del capitalista. Ampliando il concetto oggi potremmo dire che eliminando il capitalista rentiers (la cui icona in Italia abbiamo ben rappresentata in Berlusconi) la ricchezza complessiva di una nazione non varia, ma aumenta la porzione complessiva di sovrappiu’ di cui puo’ beneficiare la popolazione! Morale della favola: banchieri, rentiers, capitalisti del denaro non producono ricchezza, non aggiungono valore alla merce ma se ne appropriano drenandola dal circuito della produzione e della circolazione delle merci (e del denaro)! E’ ovvio che non ci sono solo capitalisti rentiers ma anche capitalisti manager e il loro reddito va computato in parte come salario in parte come prelievo sul sovrappiu’ derivante dallo sfruttamento di classe.

2) Che la macchina non produca plusvalore, per |Marx e i marxisti, non e’ un articolo di fede, un assioma indimostrato. Provero’ a dimostrarlo con alcuni esempi. Supponiamo che la ricchezza nazionale annua prodotta da una nazione sia costituita da 100 kg di grano pari a 100 ore di lavoro, equivalenti a 100 euro e che ci sia un unico capitalista proprietario della terra e 10 operai al lavoro con solo mani e zappe di nessun valore! Siamo ora provvisoriamente in regime di monopolio assoluto che poi faremo lavorare in regime di concorrenza!

Quindi PRODUZIONE TOTALE = 100 KG DI GRANO = 100 ORE DI LAVORO = 100 EURO

In questo caso, supponendo che mantenere i 10 operai costi 50 kg di grano (pari a 50 euro di salario), al capitalista rimangono gli altri 50 come sovrappiu’, o plusvalore. Il capitalista solo per il fatto di essere proprietario della terra e di sorvegliare gli operai che lavorano percepisce un reddito di 50 euro, pari al reddito di 10 operai. Ma ora viene il bello! Il capitalista compra da un’altra nazione un aratro che gli costa 200 euro (pari a 200 ore di lavoro che ci sono volute per costruirlo), che ammortizza in 10 anni e gli fa risparmiare la meta’degli operai e delle ore di lavoro. La produttivita’ cresce quindi del 100%. L’aratro che e’ costato 200 ore di lavoro fara’ risparmiare ai produttori di grano, in 10 anni, 500 ore di lavoro!! Avremo quindi


PRODUZIONE TOTALE = 100 KG DI GRANO = 50 ORE DI LAVORO + 20 ORE (AMMORTAMENTO DELL’ARATRO)= ?????????EURO


ho messo dei punti interrogativi al posto degli Euro. Perche’? Qui si svela l’arcano se la macchina produce plusvalore oppure no!! Se il valore dei 100 kg di grano dipende dalla quantita’ di lavoro socialmente necessario a produrlo, (come scrive Marx) allora al posto dei punti interrogativi dovremmo porre l’equivalente in euro di 70 pari a 70 ore di lavoro! In sostanza con l’aumento della produttivita’ , derivante dall’introduzione dell’aratro, avremo la stessa quantita’ di grano prodotta con un numero inferiore di ore di lavoro. Quindi

100 KG DI GRANO = 70 ORE DI LAVORO = 70 EURO

Il valore dell’aratro si realizza come ammortamento annuo di 20 ore (20 euro) ma non crea nuovo valore! Ops!!!! Arrivano i somari in economia e esclamano: ma allora il capitalista e’ scemo a introdurre l’aratro perche’ ora si trova con una ricchezza diminuita da 100 a 70 euro!! Gia’ ma il capitalista con un aratro in piu’ riesce a produrre la stessa quantita’ di grano muovendo la meta’ di lavoro vivo e il suo guadagno si realizza come sovrapprofitto fino a quando riuscira’ a vendere l’intero ammontare di grano a 100 euro, cioe’ fino a quando l’innovazione dell’aratro non si estende a tutti i suoi concorrenti. Solo a questo punto i 100 kg di grano verranno pagati 70 euro e non piu 100!! Morale della favola, con l’introduzione dell’aratro la societa’ risparmia lavoro vivo, si ritrova piu’ ricca di valori di uso ma piu’ povera di valore di scambio, in proporzione agli outputs realizzati (in questo caso 10 quintali di grano). E’ questo semplice ragionamento che ha indotto Marx, nel frammento sulle macchine dei Grundrisse, a concludere che, a causa dell’aumento della forza produttiva sociale del lavoro, il capitale mina se stesso e pian piano viene a crollare il valore di scambio come movente della creazione di ricchezza!

3) Vediamo ora cosa succede, nell’esempio citato, al tasso di profitto calcolato in ore di lavoro! Nel primo caso (quello senza aratro) il tasso di profitto ( R ) e’ il seguente:

R = 50/50 = 1 = 100% ove 50 al numeratore e’ il pluslavoro dei 10 operai e 50 al denominatore e’ il salario

con l’introduzione dell’aratro, nella prima fase in cui l’innovazione non e’ diffusa, il tasso di profitto aumenta:


R = 50/ (25+20) = 1,11 = 111% si realizza un sovrapprofitto del 11% con un tasso totale del 111%

Quando l’innovazione si diffonde, come nel sistema dei vasi comunicanti, il saggio di profitto si livella perche’ la sovra-produttivita’ del primo settore che ha introdotto l’aratro diventa la produttivita’ media, il prezzo del grano diminuisce e il valore dei 100 kg di grano che il primo settore realizzera’ sul mercato non sara’ piu’ 100 euro ma 70 euro. Quindi al tasso di profitto accade proprio questo:

R = 25 / (25+20) = 0,55= 55%

IL TASSO DI PROFITTO, CON L’INTRODUZIONE DELL’ARATRO, SCENDE QUINDI DAL 100% AL 55%, DOPO ESSERE INIZIALMENTE SALITO AL 111%. Bisogna considerare tuttavia una variabile che agisce come controtendenza a questa caduta: se consideriamo il salario come il valore del paniere dei beni consumati dall’operaio, i 5 operai che lavorano, dopo l’introduzione dell’aratro e l’aumento della produttivita’ media, consumeranno una quantita’ di grano il cui valore e’ diminuito del 40%, quindi il salario reale non sara’ piu 25 ma 15 euro.


A questo punto il nuovo saggio di profitto sara’ : R= 35 / 15+20 = 35/35 = 1 = 100%


Riassumendo il saggio di profitto ha subito un aumento, poi una caduta e poi si e’ stabilizzato al livello di partenza, alla sola condizione che i 5 operai espulsi campino di aria o non siano assistenzialmente mantenuti, mentre quelli che lavorano non rivendichino un aumento del salario reale, continuando a mangiare e nutrirsi della stessa quantita’ di grano. La macchina non ha creato plusvalore, come racconta Cesaratto, ma ha accresciuto il tasso di sfruttamento del lavoro, ossia la quota del sovrappiu’ che il capitalista preleva a spese dell’operaio!! Un aumento del saggio di profitto si puo’ avere solo se i salari reali ristagnino o crescano meno velocemenente della produttivita’ del lavoro!! In altre parole, seguendo questo ragionamento astratto, ci sarebbe caduta tendenziale del saggio di profitto se gli operai riuscissero ad ottenere con la lotta di classe una crescita del paniere dei beni salario e dei servizi sociali ed assistenziali (salario diretto + salario indiretto). Questo e’ cio’ che e’ accaduto nel lungo ciclo fordista degli anni 50-70 del secolo scorso e che oggi stanno azzerando con le politiche ultraliberisdte-liberiste e globaliste.

Non e’ vero quindi cio’ che afferma Cesaratto, ossia che la caduta tendenziale del saggio di profitto e’ falsa perche’ falsa e’ la teoria del valore-lavoro. Dati alcuni parametri ipotetici si puo’ dimostrare come corollario, in base alla stessa teoria del valore-lavoro, che il saggio di profitto cresca o rimanga stabile invece di diminuire.

4) Supponiamo ora che venga introdotta un ulteriore innovazione. Al posto dell’aratro viene acquistato un trattore che sostituisce altri 4 operai, lasciandone solo uno alla sua guida. Il trattore costa 200 euro che viene ammortizzato in 10 anni al costo di 20 euro l’anno. Esso fa raddoppiare ancora la produttivita’ del lavoro rispetto all’aratro. Costa 200 ore di lavoro ma ne fara’ risparmiare in dieci anni 320. Avremo che:


100 KG DI GRANO = 8 ORE DI LAVORO + 20 ORE DI AMMORT. DEL TRATTORE = 28 ORE = 28 EURO


Con l’introduzione del trattore il valore del grano ha subito un crollo del 72% rispetto alla situazione in cui si lavorava con la zappa e del 32% rispetto a quella in cui si lavorava con l’aratro. Cosa succede ora al saggio di profitto? Anche se l’operaio lavora solo mezza ora per riprodurre il suo salario e 8 ore e mezza per il padrone, con tassi di sfruttamento da capogiro, il tasso di profitto R sara’:


R = 8,5/ (1,4+20) = 0,40 = 40%


Questo significa che, data una quantita’ fissa e fisica di valori d’uso sociali (in questo caso 100 kg di grano) lo sviluppo esponenziale della produttivita’ del lavoro fara’ diminuire tendenzialmente sia la massa che il saggio di profitto! La massa del profitto si riduce infatti da 100 a 8,5 mentre il saggio passa da 100 a 40%. Per arginare questo crollo il capitale mette in atto una serie di contro misure che qui solo accenniamo: Monopolio, Trust, Cartelli, Imperialismo, Concentrazione e Centralizzazione dei capitali, Finanziarizzazione, Bancocrazia, immiserimento crescente della popolazione, debito ecologico, rapina e saccheggio della natura, OGM, controllo delle sementi in agricoltura, guerre, etc ect etc!!! Tutte misure tese a far crescere la massa del plusvalore per compensare la caduta del saggio!! Ma questo pocansi descritto non e’ forse il quadro perfetto del neo-liberismo bellezza? E come si spiega questo affannarsi del capitale a contrastare la caduta del saggio se non con le leggi di movimento del capitale e con la teoria del valore lavoro formulati da Marx? Rispondendo a Cesaratto, se la macchina, in questo caso il trattore, avesse prodotto piu’ valore di quanto e’ in esso contenuto il valore della produzione per unita’ di output (parola tanto cara a lui e Sraffa) non sarebbe crollato da 100 a 28 euro ma sarebbe rimasto lo stesso!! Elementare Watson!!! Ma la semplicita’ e’ la cosa piu’ difficile a farsi!!

Se produrre 100 kg di grano non e’ piu’ remunerativo, il capitale in teoria dismette la produzione e lascia morire di fame la popolazione!! Avete visto questi giorni quanti agricoltori disperdono il latte e distruggono con il trattore tonnellate di mele e di aranci solo perche’ non realizzano un profitto? Forse che non ci sarebbero bocche disponibili a mangiarli? Cio’ evidenzia icasticamente che la produzione e i bisogni della societa’ sono entrati in un conflitto insanabile con il capitale e che esso deve essere rimosso se vogliamo garantire la sopravvivenza e la convivenza civile! Il valore di scambio non puo’ essere piu’ la misura e la condizione di esistenza del valore d’uso! Ribaltando la gerarchia tra valore d’uso e valore di scambio, la comunita’ umana puo’ invece continuare a produrre i 100 kg di grano nonostante il profitto tenda a ridursi sotto la soglia insostenibile per il capitale. Solo la collettivita’, organizzata attraverso il proprio Stato, puo’ continuare a produrre gli ipotetici 100 kg di grano anche se il sovrappiu’ si avvicina allo zero. Un ipotetico stato stazionario plurisecolare con bassissimo surplus e’ compatibile con la felicita’ e il benessere della comunita’ umana orientata ai valori d’uso, piu’ di quanto non lo sia con la produzione di capitale fondata sulla valorizzazione!

5) Ora formuliamo l’ipotesi finale. Ci spingiamo fino al paradosso per vedere fino a che punto resiste la tesi marxista e quella di Cesaratto. La fatidica prova del nove. Un ipotetico Stato ci regala un Robot eterno che lavora incessantemente 24 su 24 senza intervento dell’uomo. Esso sostituisce sia il trattore che l’ultimo operaio. Che fine fara’ il valore di scambio dei 100 kg di grano? Che fine fara’ il tasso di profitto? E’ ovvio scenderanno entrambi a zero. Al massimo il valore del grano sara’ pari al valore delle sementi. Ma il valore d’uso del grano rimarra’ lo stesso. Come l’aria ha un altissimo e incommensurabile valore d’uso ma nessun valore di scambio fino a che essa non diventera’ un bene scarso (il capitale e’ sulla buona strada perche’ con l’inquinamento vuol farci pagare pure l’aria che respiriamo)) cosi il robot, che ha azzerato il lavoro umano nella produzione, ha reso cosi’ abbondanti e disponibili i valori d’uso che essi non avranno piu’ valore di scambio! Cessa quindi la produzione fondata sul valore e sul capitale…...Ma seguendo il ragionamento di Cesaratto no, perche’ la macchina produce valore e plusvalore anche senza intervento del lavoro umano!Un decrescitista come Latouche potrebbe farmi notare che in questo caso io non calcolo il limite fisico delle risorse naturali, il debito ecologico e la scarsita’ delle materie prime. Giustissimo!! Non lo aveva calcolato neppure Marx e oggi questo sarebbe un errore fatale! In sostanza non avremo mai il paese di Bengodi che, come fosse l’albero della cuccagna, azzera la scarsita’, il lavoro e lo stesso valore di scambio!

6) Cesaratto non si illuda. Non abbiamo finito di sollevare obiezioni e critiche. Ora arriva il bello! L’allievo di Garegnani e Sraffa scrive:

“Se voi mettete un capitale in banca per un anno, percepirete gli interessi per quell’anno al tasso di interesse concordato; se li lasciate per due anni percepirete gli interessi per due anni e anche gli interessi sugli interessi o interesse composto e cosi’ via per piu’ anni. Il capitalista che produce oggi impiegando il lavoro diretto (capitale variabile) ha prodotto ieri attrezzature e materiali con lavoro indiretto (capitale costante). Allora semplificando, per conoscere il valore oggi del capitale costante prodotto ieri, dobbiamo conoscere il tasso di profitto”. Sbam sbam sbam!!! Dopo tanto sbraitare contro la teoria neoclassica ne assume il postulato ideologico piu’ indifendibile e anti-operaio! E questo lo chiama ….udite udite la prova che la teoria del valore lavoro di Marx e’ falsa!!

Proviamo a farci largo tra i fumi e le nebbie di questa enunciazione!!

Per Marx il valore di ogni merce e’ rappresentabile con la seguente formula trinitaria

VALORE P di una merce = C+V+PL.

Dove C sta per il valore del capitale costante (cioe’ dei macchinari e delle materie prime), V per salari e PL per profitti o plusvalore. Ad un occhio non distratto la formula trinitaria esprime ore di lavoro socialmente necessarie, cioe’ prodotte secondo la produttivita’ sociale media. C+V+PL e’ il totale delle ore di lavoro necessarie a produrre una merce. Cesaratto sentenzia invece che la formula e’ falsa perche’ per trovare il valore di una merce, C (il capitale costante) deve essere computato come C + il saggio di profitto di C. Poi si accorge di essere caduto in un circolo vizioso perche’ per calcolare il saggio di profitto di C bisogna sapere prima il valore della merce P !!

Perche’ Cesaratto vuole C + il saggio di profitto di C? In realta’ non ha scoperto nulla, ha solo ripetuto cose gia’ dette da Garegnani. Sraffa tuttavia fu piu’ lungimirante…...disse che per calcolare il valore di una merce bisogna conoscere il prezzo di produzione di C e di V (Cesaratto ha dimenticato V) e quindi il saggio di profitto medio, (medio dottor Cesaratto e non solo quello di C) perche’ senza di questo non si puo conoscere il prezzo di produzione! Marx si avvede benissimo di questo circolo vizioso e usando il rasoio di Occam fa astrazione dai prezzi di produzione di C e di V e ne assume solo i valori per semplicita’ di calcolo. Perche’ opera questa semplificazione? Perche’ assume che il valore di C e di V sia dato dalla produttivita’ media del sistema e solo quando il valore e’ dato dalla produttivita media coincide con il prezzo di produzione!! Risolto l’enigma che ha tenuto impegnati i neoricardiani come Garegnani per trenta anni e che Cesaratto ha posto a fondamento e vertice della scorrettezza della teoria del valore lavoro!

7) Ma non abbiamo risposto alla domanda cruciale del perche’ Cesaratto vuole C + il saggio di profitto di C? Qui ci avviciniamo alla fine, cioe’ alla chiusura del cerchio teorico analitico di Cesaratto in merito alla teoria del valore -lavoro! E’ semplice….. perche’ lui assume che il capitale costante, cioe’ il lavoro morto, “produce piu’ plusvalore del lavoro vivo” e quindi deve essere computato gia’ in partenza del suo saggio di profitto atteso. Infatti egli fa questa allusione, che e’ un vero e proprio autogol: come il rentier investe il suo risparmio X per avere dopo un anno X+r, cosi il capitalista investe in attrezzature C per avere dopo un anno C+r. Avete capito bene? Il profitto non e’ una estorsione a danno del lavoratore e’ ricompensa per il contributo del capitale costante, neanche del capitalista! Cesaratto in preda a questa furia giustificazionista del profitto non si avvede che il capitalista, quando acquista le attrezzature, ha gia’ pagato il profitto al suo venditore ed esso non puo’ essere computato due volte, altrimenti la ragioneria del bilancio ne risulta completamente sballata! In C, secondo Marx, e’ compreso gia’ il saggio di profitto ed e’ il saggio di profitto medio! Non occorre riaggiungerlo! La matematica non e’ una opinione!

8) Dulcis in fundo merita attenzione il parallelo che il nostro compie tra profitto prodotto dal capitale costante e interesse creato dal capitale dato in prestito. Qui Marx si rivolta nella tomba e se fosse vivo avrebbe ridotto in polpette il povero Cesaratto!! Il nostra da ad intendere che nella misura in cui l’interesse e’ la giusta e necessaria ricompensa per il capitale prestato, cosi il profitto e’ la necessaria remunerazione del capitale investito in attrezzature. O viceversa! Sbammmm triplo!! Il Rentiers, il capitalista, l’operaio sarebbero tutte figure necessarie ed insostituibile del processo di produzione. L’interesse non e’ un prelievo parassitario sulla massa del plusvalore prodotto dal lavoro vivo ma il motore dell’economia (cosi come il profitto) e di cui non possiamo privarci!

Siamo arrivati alla fine: le tesi di Cesaratto qui espresse demoliscono se stesso, non Marx!! Oltretutto ci consegnano tout court nelle mani dell’ideologia neo liberale che a parole dichiara di combattere!! Ahime’, le tesi di Cesaratto segnano un passo indietro rispetto alle stesse tesi del suo maestro Keynes sull’eutanasia del rentiers!

Trevi 5 gennaio 2018





TEORIA DEL VALORE LAVORO:

CHI HA RAGIONE MARX O TONY NEGRI?



Caro Mauro Pasquinelli,

sono l’Anonimo delle lavanderie automatiche… grazie per la risposta. Approfondisco così vediamo se, da non-economista, riesco a capire la teoria del valore-lavoro.

Facciamo un esperimento mentale, sempre coll’esempio di prima. Giustamente dici che, una volta automatizzata un’attività, resta sempre una minima parte di lavoro umano (pulire, controllare, manutenere le macchine ecc.). Poniamo però che la tecnologia renda disponibili lavanderie completamente automatiche, che si controllano/aggiustano da sole. Hanno però un alto costo di acquisto, che solo pochi possono permettersi. Dovremmo pensare che chi possiede una simile impresa non sia più un capitalista, che non percepisca un profitto, e che tale profitto non sia più un “furto” ?

Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione: dal mio punto di vista, sta nella “privatezza” l’origine dell’ingiustizia del sistema. Il capitalista produce beni, tramite uomini o macchine (è indifferente), e poi senza aver lavorato, per il semplice fatto di essere proprietario dell’impresa, si appropria dei prodotti finiti (che quindi vengono sottratti ai lavoratori e alla collettività), che poi rivende sul mercato.
Solo un’infima minoranza di persone ha le risorse per possedere una fabbrica di automobili, una rete televisiva, una catena di supermercati ecc. (non stiamo parlando degli artigiani insomma).

La modernità si caratterizza per la sostituzione del lavoro umano (e animale) con lavoro robotico: grazie ai combustibili fossili la gran parte del lavoro fisico è svolto dalle macchine, e gli umani svolgono funzioni di comunicazione/elaborazione delle informazioni o controllo/guida delle macchine. Il problema è che queste macchine non sono di proprietà della collettività, ma di un pungo di capitalisti globali (multinazionali, banche) che vi estorcono i profitti/rendite.

Tutto questo per dire che, dal mio punto di vista, si può essere socialisti, senza introdurre le categorie di valore-lavoro plusvalore sfruttamento e caduta del saggio di profitto. La teoria del valore-lavoro sembra implicare un’essenza “metafisica” nel lavoro umano, assente nel lavoro robotico (o anche animale). Perché solo il lavoro umano dovrebbe produrre valore, visto che “fisicamente”, empiricamente, l’attività umana è identica a quella svolta da una macchina? Cosa cambia se un lavoro è svolto da un operatore composto di carbonio anziché di silicio?!
Giorgio

Caro Giorgio

Il tuo commento critico e’ denso di stimoli per l’approfondimento della discussione teorica su questo tema centrale. Tu affermi che la teoria del valore lavoro sembra implicare un’essenza “metafisica” nel lavoro umano. Perche’ solo il lavoro umano e non quello di un robot di silicio puo’ produrre valore? Se dovessi rispondere filosoficamente ti direi: perche’ la macchina non sara’ mai autocosciente come l’uomo, non puo’ porsi dei fini da realizzare attraverso il lavoro, non potra’ avere mai percezione del vero, del bene e del bello misurandosi con essa attraverso l’esercizio di facolta’ artistiche e creative! Ma andremmo fuori tema. Per rispondere invece dalla prospettiva economica devo sollevarmi dal piano analitico concreto del robot ad un totalmente astratto. Dal concreto all’astratto non ci allontaniamo, ma ci avviciniamo alla verita’ come insegnava Hegel.

Se tutta la ricchezza del mondo piovesse dal cielo non ci sarebbe bisogno di lavoro, i beni non avrebbero nessun valore di scambio, pur continuando a possedere valore d’uso essenziale per noi! L’uomo stesso non sarebbe uomo poiche’ esso si e’ auto-costruito storicamente attraverso il lavoro! La scimmia si umanizza tramite il lavoro avrebbe detto Engels!!

Una economia completamente automatizzata (dove le macchine sono eterne, possiedono intelligenza artificiale e producono miracolosamente altre macchine facendo uso solo di energia solare e materie prime illimitate) sarebbe come la manna che proviene dal cielo ed essa annullerebbe di colpo il valore di scambio di tutti i beni e lo stesso capitale, che come sappiamo e’ il supremo valore di scambio che valorizza stesso. Come puoi ben intuire, non essendoci piu’ lavoro non ci sarebbe neanche piu’ reddito e nessuno potrebbe comprare i beni che piovono dall’industria automatizzata. Qualora quest’ultima fosse monopolio di una oligarchia di super-ricchi, essa potrebbe concedersi una mega-rendita di posizione e vendere le merci solo offrendo ai sudditi un sostanzioso reddito di cittadinanza. Alla fine ci sarebbero 7 miliardi di individui che realizzano i bisogni primari e una piccola minoranza di uomini con ricchezze e proprieta’ stratosferiche. E’ il sogno o incubo dei 5s!!??

Ma questa prospettiva non sara’ mai realizzabile perche’ le risorse nel pianeta sono scarse e limitate, accumuliamo ogni giorno debito ecologico, le macchine sono deperibili e hanno bisogno di controlli e manutenzioni quotidiane. Inoltre esse racchiudono software cioe’ saperi, conoscenze, persino affettivita’ forniti non da altre macchine ma dal lavoro vivo dell’uomo!

Prendiamo ad esempio una nazione, gli Stati Uniti, il paese tecnologicamente piu’ avanzato del mondo! La disoccupazione ora e’ ivi al 4,1%. Cio’ significa che l’immensa ricchezza di questo paese, nonostante l’automazione, e’ mossa, attivata, controllata da decine di milioni di salariati. La produttivita’ del lavoro e la massa dei valori d’uso prodotti negli Usa sono direttamente proporzionali alla potenza tecnologica delle macchine e del capitale fisso, ma il valore di scambio delle merci e’ determinato direttamente dal lavoro vivo dei milioni di salariati manuali ed intellettuali che muovono, informano e sorvegliano queste macchine. Tale valore si misura ancora in moneta che riflette sottostanti unita’ temporali di lavoro vivo. Amazon ha introdotto 200.000 robot nelle proprie aziende ma ha anche assunto 300.000 dipendenti che lavorano a ritmi infernali, con controlli dei tempi e dei ritmi, che farebbero impallidire gli stessi Taylor e Ford. Anche l’industria piu’ automatizzata lucra profitti sull’economia di tempo di lavoro! Quale maggiore conferma della teoria di Marx del valore-lavoro!!

I nuovi paradigmi produttivi e tecnologici del capitalismo “Bio-cognitivo” (come lo chiamano Fumagalli e Negri) prevedono una crescente umanizzazione delle macchine e robotizzazione dell’uomo. Sicche' sembra sempre piu’ difficile distinguere tra il contributo del lavoro morto e quello del lavoro vivo, nella determinazione del valore finale delle merci. Si sta avverando cio’ che profetizzo’ Marx nel “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, vertice teorico della sua critica dell’economia politica. Oggi il capitale estrae valore non dal lavoro immediato del singolo o dei singoli, ma dalla potenza sociale, cooperativa, intellettuale, affettiva e reticolare del lavoro, che e' sempre piu' immateriale e difficilmente misurabile in unita' temporali. Tony Negri e Andrea Fumagalli si sono incartati su questo passaggio teorico, deducibile dal frammento di Marx, annunciando il superamento della teoria del valore lavoro! Ma sbagliano perche’ hanno rimosso il passaggio successivo dello scritto che cosi’ recita:

“Il capitale chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e del traffico sociale allo scopo di rendere indipendente la creazione della ricchezza dal tempo di lavoro in essa impiegato. Per l’altro verso vuole misurare con il tempo di lavoro le gigantesche forze sociali cosi create e relegarle nei limiti che sono richiesti per conservare come valore il valore gia’ creato”. Marx, Grundrisse, Einaudi, frammento sulle macchine.

Marx qui profetizza che le condizioni oggettive per l’abolizione del valore di scambio sono mature, perche’ la creazione di ricchezza dipende piu’ dall’intelletto generale, dalla conoscenza immateriale, dalle potenze della scienza e della tecnica piuttosto che dal lavoro del singolo operaio; ma il capitale non puo’ fare a meno, pena la sua dissoluzione, di misurare con il tempo di lavoro e con la forma valore la ricchezza che emana dal lavoro vivo, materiale ed immateriale. La contraddizione esplosiva e’ nel capitale stesso che vuole racchiudere nella camicia di forza del valore di scambio e della proprieta’ privata, la forza emancipante della tecnica, diventata a tutti gli effetti una potenza sociale, culturale, cooperativa e relazionale! Basterebbe togliere questa camicia di forza per rendere fruibile a tutti i benefici della forza produttiva sociale! (Nota 1)

Oggi piu’ che mai facciamo difficolta’ a misurare il valore delle merci in ore di lavoro. Infatti se prendiamo un cellulare come calcolare le ore di lavoro necessarie alla sua produzione? Sarebbe un compito improbo che rimanda, a ritroso, ad una catena di processi cognitivi ed esecutivi mondializzati interminabili. Tale compito lo lasciamo risolvere post festum al mercato attraverso la determinazione del prezzo! Ma la potenza sociale del lavoro e’ facilmente riconducibile alla misura dell’unita’ temporale, se gettiamo uno sguardo complessivo, olistico sulla produzione globale, cioe’ se calcoliamo l’intera ricchezza di una nazione o di un insieme di nazioni moltiplicando le ore di lavoro di tutti i loro salariati per il numero di essi, date certe condizioni di produttivita’ media e al netto dei patrimoni mobiliari ed immobiliari. (Nota 2) Uno sciopero generale che bloccasse gli Usa per alcune settimane farebbe piombare la nazione piu’ potente del mondo nella crisi piu’ nera, a conferma che in ultima istanza e’ sempre il lavoro vivo e non quello morto a decidere sui destini della ricchezza delle nazioni!

La potenza tecnologica mondiale dell’homo sapiens potrebbe garantire tutti i valori d’uso indispensabili alla sua riproduzione come specie! Ma e’ la permanenza della forma capitalistica della produzione, che pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza, a fare in modo che i valori d’uso siano inaccessibili per miliardi di persone e che altri miliardi vivano nella precarieta’ permanente per mantenere l’ozio e la immorale opulenza di una strettissima minoranza! (nota 3) La legge del valore potra’ essere superata solo con l’abolizione del modo di produzione capitalistico!

Alla fine tu scrivi che si puo’ essere socialisti senza introdurre la teoria del valore-lavoro. Certo!!. Infatti il comunismo come idea sorge duemila anni prima della teoria del valore lavoro. Ma sarebbe un errore interpolare una questione etica con una di carattere scientifico. La teoria del valore lavoro e’ uno strumento imprescindibile per comprendere il modo di funzionamento del capitalismo e il suo destino storico. Come tale e’ di enorme ausilio all’elaborazione di una idea di societa’ eticamente giusta, ma non va confusa con essa. Sono convinto, altresi’, che solo un uomo geniale come Marx, partigiano degli ultimi e degli oppressi, potesse svelarla nel suo profondo meccanismo di funzionamento. Ricardo, pensatore geniale animato da spirito borghese, ci era andato vicino, ma forse si era ritratto, spaventato dalle conseguenze ultime delle sue intuizioni! La scienza sociale si distingue dalla scienza naturale perche’ puo’ diventare scienza rivoluzionaria se sposa la causa degli ultimi e si libera dell’ipoteca ideologica delle classi dominanti! Cio’ non significa confondere i fatti con i valori ma dare ai fatti il sostegno dei valori, che e’ l’unico viatico per raggiungere la verita’ (che e’ sempre rivoluzionaria per Gramsci) in campo politico-sociale.



Note

Nota 1. Qui apro una postilla filosofica. Il discorso sulla tecnica apre inquietanti interrogativi filosofici sul suo potere di manipolazione dell’uomo. La tecnica, come si sviluppa in regime capitalistico, e’ un giano bifronte: da una parte ha potenzialita’ emancipatorie (potenza) previste da Marx, dall’altra e’ un nuovo leviatano (atto) che si nutre di energia umana per accrescere la sua potenza. Ed e’ quello che sta succedendo ora, brillantemente previsto da Heidegger e colpevolmente sottaciuto dai teorici del “Comune” come Tony Negri.

Nota 2. Uno dei corollari della teoria del valore lavoro e’ proprio questo: se una nazione sostituisse 20 milioni di operai con 20 milioni di robot facenti le stesse funzioni, essa sarebbe piu’ ricca di valori d’uso ma piu’ povera di valori di scambio. Piu ricca di disoccupati e piu’ povera di potere di acquisto. Per mantenere lo stesso surplus o sovrappiu’, i 20 milioni di operai dovrebbero essere reintegrati in altre mansioni produttive. Il capitale, per mantenersi in vita, e’ costretto dalle leggi coercitive della concorrenza ad espellere forza-lavoro con macchinari per poi ricreare lavoro vivo in altre mansioni. Ove non riuscisse in questo compito si apre tale scenario: macchine che producono macchine che producono beni di consumo senza piu’ valore di scambio. Questa e’ la contraddizione in cui si dimena il capitale che lo fa essere una corda tesa nell’abisso. E’ l’anticamera del passaggio dal suo essere al suo non essere, al suo nulla radicale!

Nota 3. Il compito storico del capitalismo e’ aver accresciuto esponenzialmente la massa della ricchezza prodotta, ma il suo limite invalicabile e’ aver posto questa ricchezza in antitesi alla massa che puo’ solo guardarla nei centri commerciali e non goderla! Mai come come ora, che viviamo nell’apogeo del capitalismo, il dislivello tra valore d’uso e valore di scambio, tra miseria e ricchezza e’ stato cosi alto!

Trevi 14 gennaio 2018




IMPRONTA ECOLOGICA E TEORIA MARXISTA DEL CROLLO


Cosa ha in comune la teoria del crollo di Marx con gli studi recenti sull’impronta ecologica? La storia economica degli ultimi 100 anni confuta le tesi del Moro sulla caduta tendenziale del saggio di profitto? Iniziamo da una prima definizione:

Per impronta ecologica si intende un indicatore complesso capace di computare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacita’ della terra di rigenerarle. Questo importante indicatore, scoperto da William Rees e Mathis Wackernagel nel 1996, ci indica che per sostenere l’attuale livello di produzione e di consumo mondiali ci vogliono le risorse di due pianeti. Non che manchino ancora le materie prime essenziali, perche’ altrimenti chiuderebbero le fabbriche e i loro prezzi salirebbero alle stelle, ma stiamo consumando porzioni di territorio e di risorse che corrispondono a quelli risparmiati e accumulati dalla terra nel corso dei millenni. Usando una metafora, se immaginiamo la terra come una enorme cipolla di risorse naturali, nelle societa’ pre-capitalistiche gli umani consumavano a malapena lo strato superiore, che aveva il tempo di rigenerarsi prima di essere esaurito completamente. Oggi invece ci siamo giocati i primi strati della cipolla e stiamo attingendo gradualmente e minacciosamente agli strati piu’ profondi.

Fissata pari ad uno l’impronta ecologica eco-sostenibile, risulta che la maggior parte dei paesi africani possiedono una impronta al di sotto di uno, mentre paesi come la Cina o il continente Europeo si avvicinano a due e zone come la Silicon Valley addirittura a 6. Cio’ significa che il mondo accumula ogni anno sei mesi di debito ecologico con il pianeta che non potra’ mai ripagare e che invece pagheranno le prossime generazioni, i nostri nipoti e pronipoti in termini di maggiore insicurezza e minor benessere. Si realizza sotto forma differente la famosa legge marxiana della pauperizzazione crescente a causa dell’entropia che in futuro spingera’ sempre piu’ in alto i prezzi delle materie prime, facendo lievitare il costo del capitale e abbassare ancora di piu’ il saggio di profitto!

Per la legge dei rendimenti marginali decrescenti quanto piu’ le risorse naturali si esauriscono, a causa della sfrenata caccia al profitto, tanto piu’ aumentano i loro prezzi e i loro costi! Tanto piu’ diminuira’ il surplus che servira’ alle comunita’ umane per vivere! Stiamo gia’ nella fase discendente della parabola storica di sviluppo del sistema capitalistico e se le vecchie generazioni guardavano al futuro come ad una possibilita’ di progresso oggi, inevitabilmente osserviamo il futuro come una pericolosa minaccia come un incubo che incombe sulle nostre vite!

Sara’ anche banale ma occorre ricordare che il restringimento della torta della ricchezza materiale in un contesto di inasprimento delle disuguaglianze, di sovraffollamento demografico e di riscaldamento globale scatena inevitabilmente migrazioni di massa, conflitti sociali e guerre civili per la sua spartizione. E’ la famosa legge dell’entropia calata in un sistema economico chiuso.

“Ogni processo economico inserito in un contesto eco-sistemico, scrive l’economista romeno, Georgescu Roegen incrementa inesorabilmente ed irreversibilmente l'entropia del sistema-Terra: tanta più energia si trasforma in uno stato indisponibile, tanta più sarà sottratta alle generazioni future e tanto più disordine proporzionale sarà riversato sull'ambiente.

Così, 'paradossalmente', vengono meno le ragioni tipiche dei sistemi economici attuali, che puntano ad una massimizzazione del numero di merci prodotte, ed una velocizzazione del loro processo produttivo. Una contabilità di tipo diverso, secondo Georgescu Roegen, basata sulla misura in output dell'entropia, e una efficienza energetica pensata in un nuovo paradigma, che vada a premiare non il processo massimamente redditizio, produttivo o veloce, ma entropicamente efficiente, è alla base di tutta la teoria bio-economica. Anche la concezione del tempo, in un meccanismo economico basato sulla legge dell'entropia, è differente. A tal proposito, ebbe a dire Georgescu Roegen: un guadagno di tempo si paga in energia”.

Continuando di questo passo l’homo sapiens-demens fara’ la fine degli indigeni polinesiani dell’Isola di Rapa Nui o isola di Pasqua, auto-estinti a causa del sovraffollamento e del consumo sfrenato di legname, principale risorsa di sostentamento di quella comunita’. (nota 1)




TEORIA DEL CROLLO

Qual’e’ il nesso tra l’entropia del sistema economico, l’impronta ecologica e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto?

Iniziamo dalla definizione della legge marxiana della caduta. Premesso che il saggio di profitto e’ il rapporto tra il plusvalore prodotto dalla forza lavoro e il capitale totale investito PL/C+V (dove c+v sta per capitale costante ossia macchine e materie prime + capitale variabile), per Marx ogni sviluppo delle forze produttive (che si risolve nella sostituzione di forza lavoro ad opera delle macchine e quindi nell’aumento della composizione organica del capitale, rapporto tra capitale costante investito in macchinari e capitale variabile investito in forza-lavoro) determina una tendenza di lungo periodo alla diminuzione del saggio di profitto!! Alcuni economisti di scuola neoclassica e neoricardiana hanno criticato aspramente questa legge, descritta nel terzo volume del Capitale, senza riuscire tuttavia ad invalidarla.

Io credo invece che proprio questa legge simboleggi il coronamento concettuale dell’intera opera marxiana, a partire dalla famosa teoria del valore-lavoro!! Vado ancora oltre! A causa della tendenza alla diminuzione del saggio di profitto il capitale e’ destinato storicamente a divorare se stesso e divorando se stesso a cannibalizzare la natura, il clima e la societa’ umana!

Se il saggio medio di profitto mondiale del capitale non e’ ancora crollato cio’ si deve ad un mero trucco contabile che esclude dal denominatore della formula tutti i costi, le esternalita’, gli effetti collaterali determinati dalla distruzione dell’ambiente, dall’esaurimento delle risorse e dalla perdita di miliardi di vite umane in guerre militari e economiche! Trucco contabile che permette altresi’ a Monsiuer le Capital di non contabilizzare al numeratore l’equivalente dei miliardi di dollari di valore estratti dal super-sfruttamento delle popolazioni semi-coloniali. In altri termini se nella formula PL/C+V sottraiamo al numeratore il super-plusvalore estorto agli operai del terzo e quarto mondo, pagati un dollaro al giorno, e sommiamo al denominatore il debito ecologico creato da questo modello di sviluppo, il sistema capitalistico sarebbe gia’ crollato, avrebbe dovuto gia’ dichiarare bancarotta!!

Lo stesso trucco contabile consente al capitale, attraverso la formula del PIL (prodotto interno lordo) di far passare per crescita l’annientamento dell’uomo e della natura!! Se non e’ chiaro quello che ho gia’ scritto nel mio articolo “o il PIL o la vita” faccio un ulteriore esempio: un incidente automobilistico che distrugge due macchine e provoca dei morti aumenta il PIL ma ha gettato nella disperazione piu’ nera due famiglie!! E’ giunto il momento di sottrarci all’imperialismo semantico della contabilita’ capitalistica, al lessico del potere che e’ una forma subliminale di colonizzazione dell’immaginario collettivo!!

Mi sento gia’ ronzare nelle orecchie la critica che questa mia analisi e’ moralistica e non scientifica! Cio’ mi costringe ad essere ancora piu’ preciso! Faccio un ulteriore esempio per chiarire cosa intendo per debito ecologico e caduta del saggio di profitto! Immaginiamo che una impresa capitalista usi meta’ dei suoi operai come schiavi a costo zero e l’altra meta’ come forza lavoro salariata. Supponiamo inoltre che questa impresa paghi meta’ del suo capitale costante e delle sue materie prime al suo valore, mentre l’altra meta’ se la procuri rubando. Poniamo uguale a 50 il capitale costante e le materie prime e 50 il costo della forza lavoro. Supponendo che il tasso di plusvalore pl/v e’ del 100% cioe’ 50/50 avremo come saggio del profitto 50/100 = 0,5 = 50%. Se l’impresa avesse pagato anche gli schiavi e le materie prime rubate il saggio di profitto sarebbe crollato a 50/200= 0,25=25%.

L’accumulo di debito ecologico nei confronti della natura, i milioni di morti causati dalla fame, dalle guerre, dall’inquinamento, dal super-sfruttamento rappresentano su scala aggregata e globale cio’ che nell’esempio precedente equivale a capitale rapinato + lavoro schiavistico, non contabilizzati nella odierna ragioneria truccata del saggio di profitto! E’ ovvio quindi che una riscrittura contabile del saggio medio di profitto mondiale (che oggi si aggira attorno al 7-12%) secondo criteri piu’ razionali di contabilita’ che tengano conto del concetto di bene comune, delle esternalita’ etc, produrrebbe il crollo istantaneo del sistema capitalistico! Detto in altri termini: se ci fosse uno Stato che facesse pagare al capitale sotto forma di tasse i suoi costi sociali e sistemici di riproduzione esso andrebbe immediatamente in rovina. Se riflettete bene e’ proprio qui la radice del trionfo del neoliberismo e dell’attacco portato dal capitalismo internazionale al welfare state e agli stati nazionali!

Alle stesse conclusioni si potrebbe giungere se analizziamo il capitale globale dal punto di vista finanziario, computando i debiti totali del sistema-mondo e la ricchezza reale (PIL mondiale piu’ immobilizzazioni di capitali). I debiti totali (pubblici e privati) nel mondo si aggirano attorno ai 200.000 miliardi di dollari, mentre la ricchezza totale (Pil + immobilizzazioni di capitale) e’ circa 100.000 miliardi di dollari. Per ogni 100 di ricchezza abbiamo 200 di debito!!

Scrive Luciano Gallino “Se il sistema finanziario mondiale fosse una singola impresa, con tutte le attività e passività iscritte in bilancio con il loro vero valore, come prescrivono le norme contabili internazionali, sarebbe crollato da tempo, avrebbe cioè dovuto dichiarare bancarotta e portare i libri in tribunale”.

Allora la domanda che necessariamente scaturisce e’: come puo’ il capitalismo internazionale non dichiarare ancora bancarotta? Accentrandosi vertiginosamente (fino al punto che 8 persone oggi possiedono il reddito di 3 miliardi di persone) dirottando le sue enormi ricchezze nei forzieri dei paradisi fiscali e scaricando i costi della sua riproduzione sulla popolazione mondiale e sulla natura! Gia’ Marx aveva descritto brillantemente questo fenomeno: il capitale centralizzandosi riesce ad aumentare la massa complessiva di plusvalore in suo possesso compensando cosi la caduta del saggio di profitto. Una massa di plusvalore pari a mille con un saggio del 5% e’ migliore per il capitalista di una massa di 100 con un saggio del 30%! Ma cio’ che il genio di Treviri trascuro’ di analizzare (e non gliene si puo’ dare colpa per ragioni evidenti) e’ che i costi sociali ed ecologici dell’entropia capitalistica alla fine si riverberano sul saggio di profitto medio aggravando la sua tendenza al declino!

Fino a quando puo’ durare questo gioco al massacro del capitale? Se noi intrecciamo i dati macro sul debito ecologico, sul debito finanziario, sulla crescita della disoccupazione mondiale e delle disuguaglianze, possiamo concludere che la sopravvivenza del capitalismo diventa sempre piu’ insostenibile sia in termini sociali che ecologici e finanziari! E di nuovo aveva ragione Mister Karl: la permanenza del modo di produzione capitalistico e’ diventato un costo troppo oneroso per l’umanita’. Di nuovo siamo tutti scaraventati difronte al dilemma storico: essere o non essere!! Il capitale o la vita!!



Nota 1

Allo sbarco dei primi colonizzatori polinesiani, che i più recenti studi fanno risalire attorno all'800-900 d.C., probabilmente l'isola si presentava come un'immensa foresta di palme. Fino al 1200 d.C. la popolazione rimase numericamente modesta e sostanzialmente in equilibrio con le risorse naturali presenti. In seguito, però, nacque da parte degli abitanti la necessità di realizzare i moai, il cui sistema di trasporto richiedeva notevoli quantità di legname. Cominciò pertanto un importante lavoro di disboscamento dell'isola che fu ulteriormente intensificato dopo il sensibile aumento della popolazione dovuto a nuovi sbarchi. Verso il 1400 d.C. la popolazione toccò i 15.000-20.000 abitanti e l'attività di abbattimento degli alberi raggiunse il picco massimo. La riduzione della risorsa forestale provocò, conseguentemente, un inasprimento dei rapporti sociali interni che sfociarono talora in violente guerre civili. Tra il 1600 e il 1700 d.C., in alternativa al legno divenuto sempre più scarso, gli abitanti iniziarono a utilizzare anche erbe e cespugli come combustibile. Le condizioni di vita sull'isola divennero pertanto proibitive per la poca popolazione rimasta, in gran parte decimata dagli scontri interni e dai flussi emigratori. Secondo i resoconti del primo occidentale a sbarcare sull'isola, Jakob Roggeveen, al tempo del suo arrivo l'isola si presentava brulla e priva di alberi ad alto fusto.




LA LEGGE DEL VALORE NEL CAPITALISMO BIO-COGNITIVO

gli errori di Tony Negri



La legge del valore e’ un caposaldo della teoria economica marxista. E’ il perno concettuale dell’analisi delle leggi di movimento del capitale. E’ la madre di tutte le leggi scoperte da Marx (dalla legge assoluta dell’accumulazione, al plusvalore assoluto e relativo, fino alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, dal concetto di equilibrio al concetto di crisi e di ciclo economico). Non e’ un caso se tutti i critici di Marx, pensando invano di demolirlo, hanno concentrato il focus su questa legge, dai neoricardiani (secondo i quali la “trasformazione dei valori in prezzi” del terzo volume inficia la teoria del valore-lavoro) per finire con Andre’ Gorz e il nostro Tony Negri. (1)




La teoria del valore-lavoro in pillole

Di cosa tratta questa legge, in estrema sintesi? (2) Ogni merce, quindi ogni bene destinato allo scambio ( e nel capitalismo tutto e’ merce) e’ unita’ di due opposti: valore d’uso e valore di scambio. Come determinare la grandezza di valore della merce? Non possiamo farlo concentrandosi sul valore d’uso (come pensano i teorici marginalisti neoliberali) perche’ ognuno di noi da un peso diverso ad ogni bene in base alle proprie necessita’ e preferenze personali (ed anche quelle “marginali” sono differenti per ogni persona). Ne deriverebbero miliardi di grandezze di valore diverse. Poiche’ il valore deve essere universale ed uguale per tutti ed il prezzo pure, esso deve essere necessariamente calcolato nell’altro polo, il valore di scambio, che viene rappresentato universalmente attraverso l’equivalente generale del denaro. Come equiparare in valore quindi un kg di patate con un litro di latte o due ore di lavoro della badante? Smith e Ricardo, precursori di Marx, rispondono cosi’: attraverso il lavoro necessario a produrre questi beni. E siccome il lavoro si misura in unita’ temporali essi si affrettano a dire: attraverso il tempo di lavoro necessario alla loro produzione.

Ma questa tesi, a sua volta, presenta un vulnus, mostra il fianco ad un limite di misurazione: come uniformare il tempo di lavoro di un calzolaio pigro, che produce 1 paio di scarpe in una ora, con il tempo di lavoro di un’altro calzolaio piu’ produttivo che ne produce 2 paia nello stesso tempo? Qui interviene Marx con la famosa categoria del lavoro socialmente necessario. Il tempo che deve essere calcolato (e questa operazione e’ compiuta dal mercato ex post) e’ un tempo medio sociale tra quello del calzolaio piu’ produttivo e quello del calzolaio meno produttivo. Ma rimane ancora un dilemma da risolvere: il lavoro di un calzolaio e’ differente dal lavoro di un fabbro, di un contadino o di un insegnante. Come equiparare lavori di natura e sforzo differente? Marx risponde, introducendo per la prima volta nella teoria economica, la categoria di lavoro astratto. Ogni lavoro particolare puo’ essere commisurato con ogni altro tipo di lavoro in quanto erogazione, in unita’ temporali, di energia fisica, psichica, intellettuale e muscolare.

Attenzione quindi: il lavoro in quanto lavoro astratto e’ lavoro indifferenziato, e’ erogazione di generica energia psico-fisica umana. Grande intuizione di Marx, resa possibile civettando con la logica di Hegel! Tramite questa categoria logico-dialettica possiamo commisurare non solo tutti i valori delle merci ma anche lavori di natura differente, per esempio lavoro manuale e lavoro intellettuale, lavoro materiale e lavoro immateriale, lavoro di un addetto alle pulizie e lavoro di un insegnante produttore di conoscenza. Marx non si accontenta e si spinge oltre: lavori semplici ed esecutivi come quello del manuale si possono equiparare con lavori piu’ complessi come quello dell’ingegnere facendo riferimento alla quantita’ di tempo di lavoro socialmente necessaria per produrre un manuale o un ingegnere. Ben detto, sara’ un grimaldello per scardinare i super-critici, i critici-critici della Teoria del valore!

Rebus sic stantibus passiamo al revisionismo di Negri in tema di teoria del valore. Cosi scrive nel suo ultimo libro:

“Mentre le imprese capitalistiche provavano a misurare il valore dei prodotti industriali e culturali, in genere i prodotti sociali resistono al calcolo. Come si quantifica il valore della cura prodotto da un infermiere, o l’intelligenza di un addetto al call center che risolve problemi informatici, o il prodotto culturale di un collettivo artistico o l’idea prodotta da un gruppo di scienziati? Il valore del comune in generale resiste al calcolo e tutte queste attivita’ del comune che costituiscono forme di vita sociale si pongono oltre ogni possibilita’ di misura”. (3)

Tony Negri non si avvede che la risposta e’ proprio nel primo volume del Capitale: e’ nella categoria di lavoro astratto che per Marx, e qui egli opera un ulteriore scatto logico-analitico, non e’ solo una operazione concettuale per ridurre a misura e piegare alla contabilita’ in denaro entita’ differenziate di lavoro concreto, ma e’ altresi’ l’approdo a cui e’ destinato il lavoro salariato nell’epoca del capitalismo totale, che riduce tutto alla dimensione asettica del calcolo: un lavoro non solo alienato ma appunto astratto, uniformato, mi viene da dire genderizzato, senza sesso, ne’ passione soggettivante. Lavoro che esce dal corpo non come praxis volontaria e oggettivante, non come realizzazione di se’, ma come lavoro generico che precipita nello stesso tipo di estraneazione sia l’infermiere che l’addetto al call center (solo per citare i soggetti tirati in ballo da Negri e che lui enfatizza spogliandoli di ogni dimensione negativa e de-soggettivante impressi dal capitale ). Come vedremo nella terza parte della mia critica (general Intellect), Negri attribuisce al lavoro del Comune e alle forze produttive bio-cognitive in esso racchiuse, un carattere non solo neutrale, ma addirittura portatrici di una plusvalenza di socialita’, di produttivita’ bio-politica, di attitudine alla liberta’ e alla pluralita’, di produzione di senso, di autonomia dal comando capitalistico. Se ci pensate bene siamo agli antipodi degli insegnamenti della scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e Marcuse) che infatti Negri stigmatizza con queste durissime espressioni:

“Infatti la tragica valutazione di Horkheimer e Adorno dell’umanita’ moderna, della sua ideologia e delle sue tecnologie puo’ portare solo ad amare rassegnazioni piuttosto che ad un progetto attivo”(4)

Negri non si spinge fino a negare che il lavoro vivo e’ la fonte del valore (come fanno i neoricardiani e i marginalisti). Sostiene la tesi che oggi, nel capitalismo bio-cognitivo, dove la conoscenza e l’intelligenza sono diventate la principale forza produttiva (come del resto scritto da Marx nei Grundrisse) entra in crisi la misura del valore. In altre parole il valore di scambio non puo’ essere piu’ misurato dal tempo di lavoro. La produzione del comune contiene una eccedenza in termini di affettivita’ di imaginazione, di cura, di saperi, di codici, che non si fa ridurre al calcolo matematico dei tempi. Negri non si avvede che rendendo irriducibile la produzione del Comune al calcolo non fa che destituire di fondamento la stessa teoria del valore-lavoro, poiche essa e’ incentrata esattamente sul calcolo del tempo di lavoro astratto socialmente necessario. E dove non e’ possibile la misura si smarrisce l’essenza della legge, la sua geometrica e matematica certezza.

Ma Negri sa che dove lui non trova la misura, (cioe’ il prezzo) ci pensa il mercato a trovarla. E il mercato non e’ una entita’ soprannaturale slegata dal processo di circolazione del valore, ma il luogo geometrico dove si traducono le merci e dove esse realizzano un prezzo che deve necessariamente coprire i costi di produzione piu’ il profitto dell’imprenditore. Ove questi non si realizzano il mercato ti espelle alzando cartellino rosso. L’addetto al call center e l’infermiere ricevono un salario che e’ l’equivalente, non della affettivita’ da loro trasferita sul lavoro (sic!), ma del tempo di lavoro socialmente necessario a produrre i beni-salario (benzina, macchina, alimenti, vestiti, telefonino etc) che servono a ri-produrli come forza-lavoro. Il capitale ragione in modo molto piu’ materiale e concreto delle imbarazzanti, sofisticherie negriane!!

La cortina fumogena del Negri-pensiero comincia a dissolversi. Ma siamo solo all’inizio. Andiamo oltre!




Legge del valore e capitalismo bio-cognitivo


Ripetendo concetti gia’ espressi da Marx nei Grundrisse e nel capitolo sesto inedito del Capitale, Negri certifica che la fonte di tutta la ricchezza sociale e quindi del valore totale risiede nel lavoro vivo; ma non piu’ nel lavoro immediato del singolo operaio bensi’ nel lavoro cooperativo e cognitivo sociale. Aggiunge che la forma e il contenuto di questo lavoro cooperativo del “Comune”, nel passaggio dal fordismo al postfordismo cambia di segno: non e’ piu’ lavoro materiale, trasformazione dell’oggetto alla catena di montaggio ma produzione di conoscenze, di intelligenza, di affettivita’, persino di cura. E come misurare l’intelligenza, l’immaginazione, l’intuito del pubblicitario, il senso estetico, il giudizio, il livello di formazione e di informazione, la facolta’ di apprendimento e di adattamento a situazioni impreviste, l’arte di convincere l’interlocutore e il consumatore? Tutto cio’ non puo’ piu’ essere misurato in unita’ di tempo astratte, non si fa ridurre alla quantita di lavoro astratto di cui sarebbe l’equivalente.

Io aggiungerei, per complicare il quadro, che si presenta un ulteriore difficolta’: l’infinita catena globale del valore. Se e’ vero che la merce diventa merce globale e le sue molteplici componenti vengono prodotte da un polo all’altro del pianeta, con regimi di salario e di costi differenti, con poteri di acquisto della moneta e livelli di produttivita’ estremamente diversificati, come raccapezzarsi e formulare un calcolo dei tempi di lavoro di ogni singola merce?

Faccio notare e sottolineo en passant che il vero padre di questa teoria non e’ Tony Negri ma Andre’ Gorz (5). Sorvoliamo sul plagio e torniamo in medias res.

Alle precedenti domande si puo’ rispondere facilmente. Andiamo per gradi.

a) Il sistema capitalistico fissa il prezzo delle merci non nella sfera del processo di produzione, quando le merci sono appena uscite dalla fabbrica, ma nella sfera del processo di circolazione, a meno che non ci si trovi difronte a prezzi di monopolio o di oligopolio pre-fissati dal singolo capitale.

b) La fissazione del prezzo di un bene a livello mondiale non e’ arbitraria ma dipende sempre dai livelli di produttivita’ media del lavoro che ha generato quel bene. E cosa indica il concetto di produttivita’ se non una formula matematica dove al numeratore poniamo la quantita’ di beni prodotti e al denominatore il numero delle ore di lavoro?

c) Lo stesso saggio medio di profitto, che entra a far parte del prezzo di produzione, non puo’ essere stabilito dai singoli capitalisti ex ante ma dal mercato ex-post ed esso e’ la risultante dell’interazione tra migliaia di venditori che agiscono sul mercato. Il processo capitalistico e’ processo di produzione e processo di realizzazione del valore! I due momenti non possono essere disgiunti!

d) E’ pleonastico far notare che se nessuno vuole la merce prodotta, se la merce non risponde ad un valore d’uso, quella merce non ha nessun valore. Le ore impiegate alla sua produzione valgono zero. Ma se facciamo astrazione dal valore d’uso e diamo per assunto che la merce corrisponde ad un bisogno capace di pagare, essa, per essere venduta, deve fare i conti con l’ostacolo della produttivita’ media (quantita’ di prodotto per ore lavorate) e qui entra in gioco la legge del valore. Se non superi questo scoglio sei fuori dal mercato!

e) Last but not least, qui entriamo nel cuore della confusione analitica di T. Negri. La conoscenza, l’intelligenza, l’intraprendenza, l’intuito, la cura, l’affettivita’, tutte queste qualita’ immateriali che Negri pone a fondamento della creazione di valore nel Comune (e non piu’ misurabili secondo lui) non sono affatto fonte di valore ma di plusvalore relativo! Non sono misurabili perche’ non entrano nel processo di creazione del valore di scambio. E’ qui l’arcano del valore che Negri non riesce a penetrare e svelare. Esse rappresentano doni gratuiti della natura umana che consentono al capitale che se ne appropria, e che recinta e cattura (come i famosi beni comuni nell’accumulazione originaria, corvees) di estrarre valore, di aumentare il tasso di sfruttamento del lavoro vivo, cioe’ la relazione tra plusvalore e capitale variabile (salario). Anche la natura fornisce doni gratuiti senza aggiungere valore alla merce. L’abbondanza di acqua o di materie prime in un determinato luogo e’ fonte di valori d’uso e di ricchezza, e’ una bonus per il capitale che li cattura, ma e’ un dono gratuito dal punto di vista della creazione di valore di scambio. Negri, come nella teoria dell’Impero, cade di nuovo nell’astratto indifferenziato, nella totalita’ priva di senso, e mette nello stesso sacco il processo di creazione di valore d’uso e valore di scambio come avessero la stessa natura. Ma per Marx hanno una relazione antitetica e spesso inversa. Infatti quanto piu’ aumenta la produttivita’ del lavoro, quanto piu’ aumentano i valori d’uso (e quindi la ricchezza sociale) tanto piu’ ogni singolo valore d’uso perde valore di scambio.

Dopo aver dedicato una intera vita allo studio de “il Capitale” di |Marx, (negli anni 60 ai tempi di Potere Operaio gia’ organizzava corsi su questo testo) Negri - mi perdoni l’irriverenza- non ne ha ancora afferrato la dialettica immanente, tra astratto e concreto, tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro astratto e lavoro concreto, alla base del metodo analitico marxiano.

f) La scienza, la conoscenza e l’intelligenza, se non sono incorporate nel capitale attraverso l’innovazione tecnica, il trasferimento nel corpo fisico della macchina, se non diventano software di un Hardware non intaccano e non offrono nulla al processo di produzione capitalistico. La geniale intuizione di James Watt (ma potremmo dire di internet, del digitale etc) sarebbe morta nel suo laboratorio se non fosse stata incorporata nella nuova tecnologia della macchina a vapore. Ma una volta che l’intuizione, l’idea, la facolta’ di comprensione, l’arte, cioe’ tutte queste facolta’ immateriali che distinguono l’uomo dai suoi cugini animali, vengono catturate e recintate dal capitale, esse si trasformano in capitale fisso (macchine, macchine che producono macchine fino all’intelligenza artificiale), lavoro morto ed oggettivato, che come tale non crea alcun nuovo valore anche se consente di accrescere il lavoro superfluo a spese di quello necessario (plusvalore relativo) e la ricchezza sociale in termini di valori d’uso. (6) Il capitale fisso -o capitale costante- trasferisce, come ammortamento nel valore finale, solo la quota di valore in suo possesso, ma non aggiunge nuovo valore al capitale iniziale investito, come invece e’ prerogativa del lavoro vivo e astratto.

g) Quantunque l’intelligenza e l’immateriale finisca come componente del lavoro vivo (per esempio nel toyotismo, nella lean production del just in time, dove la capacita’ di autocorrezione in situazioni di anomalia, l’autonomia intellettiva dell’operaio, il lavoro per squadra che promuove la responsabilita’, e’ fonte di valorizzazione) essa e’ pagata, come abbiamo visto sopra, come capitale variabile. E il capitale variabile viene calcolato dal capitalista -come abbiamo visto - non per chissa’ quale dote immateriale e impalpabile del salariato (le sue intuizioni, la sua affettivita’ etc) ma per il valore dei beni- salario che servono a tenerlo in vita come forza-lavoro astratta e riproducibile (sottolineo riproducibile). Solo in questo caso l’immateriale rientra a pieno titolo nella categoria del lavoro vivo astratto in grado di creare nuovo valore. Ma vi rientra come lavoro intellettuale che, in quanto lavoro astratto, e’ compreso sempre nella categoria di lavoro vivo, come il lavoro manuale. Ognuno puo’ intuire che nello stesso lavoro manuale e’ contenuto lavoro intellettuale, conoscenza, gnosis. Non c’e’ muratore che prima di elevare un muro non faccia sforzo cognitivo, non sprigioni arte, esperienza e sapienza (qualita’ immateriali che si traducono in un muro materiale!) Teoria e praxis, praxis e teoria sono componenti materiali ed immateriali del lavoro vivo astratto.

h) En passant e a scanso di equivoci rilevo che la conoscenza e l’intelligenza, che nella circolazione del valore si da come brevetto o proprieta’ intellettuale di singoli capitali, non e’ sorgente di valore ma funzione estrattiva di valore gia’ creato, in una parola rendita.




Negri e il frammento sulle macchine dei Grundrisse


Ed ora, in conclusione, arriviamo finalmente a sciogliere l’enigma da cui tutto il fraintendimento di Negri ha inizio: il frammento sulle macchine dei Grundrisse di Marx.

Per facilitare al lettore il compito di comprensione di questo frammento (7), che e’ tra i piu’ complessi e incompresi degli scritti di Marx, e che Negri prende a fondamento per la sua demolizione della teoria del valore-lavoro, reiterandolo sottotraccia e in modo fantasmatico in tutti i suoi scritti dagli anni 60, immaginiamo cio’ che Marx stesso aveva ipoteticamente in mente: una economia dove un singolo operaio muove un sistema automatizzato di macchine che produce l’intera ricchezza sociale, o se volete una fabbrica interamente automatizzata messa in movimento da un solo operaio. Scopriremmo, applicando la legge del valore, che in essa la creazione di nuovo valore precipita vicino allo zero. Il plusvalore relativo e assoluto crollano e con essi la base su cui poggia e si eleva la produzione capitalistica! Con cio’ sottolinea Marx -

“la produzione basata sul valore di scambio crolla e il processo produttivo materiale viene a perdere la forma della miseria e dell’antagonismo”.

Prendendo per buono il paradosso (8) a cui Marx spinge l’astrazione del valore, Marx ha ragione! Ha torto Negri quando trasforma questo paradosso analitico, questa iperbole teorica nello schema che raffigura il capitalismo bio-cognitivo post-fordista. Infatti basta osservare l’economia del paese tecnologicamente piu’ avanzato del mondo (gli Usa) e scopriamo che ivi la disoccupazione oggi e’ al 4% e l’immensa ricchezza sociale di questo paese e’ prodotta, non da un solo operaio che muove tutto, ma da decine di milioni lavoratori salariati, (compresi quelli de-localizzati all’estero e che lavorano per le multinazionali Usa) erogatori di lavoro vivo astratto, produttori di plusvalore relativo ed assoluto. La legge del valore non e’ tramontata, e’ piu’ viva che mai, almeno fino a quando sopravvivera’ la vessante forma capitalistica del processo di produzione. Speriamo non molto.


Note

Nota 1 Nel mio scritto “andare oltre Marx 1, 2, 3, presuppongo la validita’, che resiste ancora alla forza del tempo e del cambiamento, della sua geniale teoria economica , dedicandomi alla critica del suo pensiero nella sfera politica e filosofica.

Nota 2 Proveremo a sintetizzare in pillole i primi due capitoli del primo volume del capitale, da sempre considerati i piu’ ostici alla comprensione di un pubblico a digiuno di economia filosofia.

Nota 3 Tony negri e Michael Hardt, Assemblea, ed. Ponte alle Grazie 2019 pag 277

Nota 4 Tony Negri ibidem, pag 150

Nota 5 Andre’ Gorz, l’immateriale, bollati boringhieri 2003.

Nota 6 La Divina Commedia di Dante Alighieri arricchisce la societa’ di bellezza ma non aumenta di un euro il valore prodotto fino a che non ci sia un capitale o un editore che stampa il suo libro in serie illimitata.

Nota 7 Come e’ noto Marx non pubblico’ mai i Grundrisse, che erano quaderni di appunti in vista della scrittura del Capitale. Questa frammento, che io considero una iperbole teorica, una estrema astrazione analitica, non trovera’ mai spazio nei tre volumi del capitale. Scrive Marx: “nella grande industria la ricchezza reale si manifesta nella straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto a pura astrazione e la potnza del processo produttivo che esso sorveglia. Il lavoro non si presenta piu’ tanto come incluso nel processo produttivo in quanto e’ piuttosto l’uomo a porsi come sorvegliante e regolatore nei confronti del processo produttivo stesso...l’operaio si sposta accanto al processo produttivo invece di esserne l’agente principale. In questa situazione modificata non e’ piu’ il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, ne’ il tempo che egli lavora, bensi’ l’appropriazione della sua forza produttiva generale, lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sulla quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto in confronto a questa nuova base, creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore d’uso...con cio’ la produzione basata sul valore di scambio crolla e viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo”. K. Marx Grundrisse, einaudi 1976 pag 717

Nota 8 Marx forza l’analisi astrattamente fino al paradosso per indicare l’approdo a cui puo’ condurre la tendenza di sviluppo del sistema capitalistico, se portata all’estremo la crescita della composizione organica del capitale (rapporto tra capitale investito in tecnologia e salari, per unita’ di capitale o di prodotto)


































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